Negli anni ’70, sulla scia di un progressivo revisionismo che coinvolse un po’ tutti i generi, anche il western subisce in America una serie di cambiamenti tematici e stilistici. È l’epoca della New Hollywood che, come evidenziato nell’approfondimento del nostro Vincenzo, impone una nuova generazione di autori e nuovi valori all’industria cinematografica. Nel caso del mio genere prediletto, oltre ad una almeno parziale smitizzazione della frontiera e della sua epopea eroica, ad emergere è chiaramente una maggiore simpatia nei confronti degli indiani, da sempre il nemico classico nei western. Anche in precedenza si erano avuti casi di pellicole con un occhio a favore degli indigeni d’America – da The Red Man’s View (1909, di D. W. Griffith) a Il grande sentiero (1964, di John Ford) – ma è a partire dagli anni ’70 che questa scelta prende sempre più piede. Di seguito verranno illustrati cinque film, già citati nel suddetto approfondimento, che affrontano questa tematica approcciandola in maniera diversa tra loro.
UN UOMO CHIAMATO CAVALLO
Uscito nelle sale nel 1970, è considerato il primo western della New Hollywood che affronta in modo diverso la questione dei nativi, benché elementi innovativi in tal senso si fossero già avuti negli anni immediatamente precedenti con Ucciderò Willie Kid, del 1969. Un uomo chiamato cavallo è ambientato nella prima metà dell’Ottocento, quindi prima dell’epoca “canonica” del western (sempre che davvero esista un limite temporale del genere). Il protagonista John Morgan, interpretato da Richard Harris, è un nobiluomo inglese trasferitosi nel West, dove viene rapito dagli indiani e tenuto prigioniero. Con il tempo, verrà accettato dalla tribù e a sua volta aderirà alle loro usanze. Scegliendo, dunque, di narrare la vicenda “dall’interno”, immergendoci nella vita dei sioux, il regista Elliot Silverstein ha modo di mostrarci l’altro lato della frontiera, quello delle vittime dell’espansione americana. All’epoca in cui il film è ambientato, tuttavia, gli indiani delle pianure erano ancora signori del loro territorio, dominio che perderanno in seguito come illustrato nei mediocri sequel La vendetta dell’uomo chiamato cavallo (1976) e Shunka Wakan (1983). Le sofferenze subite dai nativi sono quindi un tema cui si accenna solo e anzi si tende a simpatizzare con l’uomo bianco, il prigioniero, soprattutto nel suo disperato appello, lanciato dopo l’ennesima angheria ai suoi danni: “Non sono un cavallo! Sono un uomo!”. Non è quindi l’indiano a gridare il suo diritto all’esistenza, ma l’invasore. Silverstein si muove su un terreno sdrucciolevole, mostrando sì la cultura sioux, ma senza risparmiarci le sue forme più macabre: non sono sufficientemente open-minded da pensare che infilarsi dei coltelli nelle carni e farsi sollevare dal suolo tramite questi per dimostrare di essere uomini veri sia un esempio da imitare per le altre culture. Insomma, il rispetto reciproco e l’apprezzamento verso l’altro sono presenti – e sono elementi tutto sommato nuovi, soprattutto a questi livelli – ma si opta comunque per un certo distacco. Allo stesso tempo, gli indiani non sono solo semplici vittime, ma un popolo vivo, attivo, con le sue tradizioni che, se conosciute, avrebbero potuto essere apprezzate dai bianchi come fa John Morgan, prima del loro spietato annichilimento.
SOLDATO BLU
Completamente differente è l’approccio di Soldato blu (1970, che si rivela quindi un anno decisamente denso di buone produzioni di genere). La trama è molto semplice, praticamente un pretesto per mostrare il vero nocciolo della questione: la crudeltà dei bianchi nei confronti dei nativi. Un soldato e una donna, unici superstiti di un’imboscata dei cheyenne, cercano di raggiungere un luogo sicuro e, nel loro peregrinare, assistono al massacro di Sand Creek. Si tratta di uno degli atti più barbari e immotivati contro i nativi, per il quale il colonnello Chivington divenne tristemente noto. Quanto visto scuoterà l’animo del soldato, portandolo a chiedersi chi sia il vero “cattivo”. Il regista Ralph Nelson – non nuovo al cinema western – non risparmia allo spettatore praticamente nulla di quanto avvenuto in quell’infausto giorno, mostrando ogni genere di crudeltà. E… niente, non c’è molto altro da dire. L’innovazione apportata da Soldato blu è proprio questa, il suo essere talmente realistico da risultare surreale. Peter Strauss, attore perlopiù di serie tv e film tv, non risalta particolarmente, mentre Candice Bergen ci mette la quota di gnocca. La loro interpretazione viene però facilmente dimenticata a fronte delle scene di violenza.
IL PICCOLO GRANDE UOMO
Tra tutti i film di cui parlo qui, è forse quello che mi è piaciuto di meno, ed è strano, considerando che è generalmente molto ben valutato. Uscito anch’esso nel 1970, utilizza un approccio al tema “indiani” che è un po’ un mix di quelli di cui si servono le altre opere di cui scrivo. Da un lato, c’è l’avvicinamento di un bianco alle tradizioni e alla vita dei nativi; dall’altro c’è la ridicolizzazione degli americani, e in particolare di Wild Bill Hickok e del generale Custer, grottescamente narcisista e incapace, forse più di quanto non fosse in realtà. Il punto focale del film è la battaglia di Little Big Horn, nella quale i cheyenne riuscirono a sbaragliare l’esercito nella loro più grande vittoria a Ovest degli Appalachi. L’intero film è narrato come un flashback dal protagonista che, a 121 anni, viene intervistato da un giornalista. La propria vita risulta ricca di avvenimenti e incontri con personaggi bizzarri e coloriti ma che, nel complesso, finiscono sempre per deluderlo e fargli perdere fiducia nel genere umano, o perlomeno nei bianchi. La regia è nientemeno che di Arthur Penn, mentre il cast vede – oltre ad un eclettico Dustin Hoffman – Faye Dunaway, Martin Balsam e Chief Dan George.
CORVO ROSSO NON AVRAI IL MIO SCALPO
Quello che è il mio preferito tra i cinque film qui analizzati vede un Robert Redford protagonista quasi assoluto (infatti in originale il titolo è il nome del suo personaggio, Jeremiah Johnson). Ma, forse, a dominare su tutti, anche e soprattutto su Jeremiah, è la natura selvaggia nella quale l’uomo decide di ritirarsi, disilluso dalla vita nella comunità. Nonostante le lande desolate – bellissimi i paesaggi e la fotografia, memorabili – non mancano gli incontri con altre persone, prima fra tutte il capo indiano Mano Che Segna Rosso. Nel corso del tempo, Jeremiah Johnson impara a convivere con i nativi e con la natura e si accasa perfino con una pellerossa. Non mancano altre curiose conoscenze, come quella con un cacciatore di scalpi e quella con un cacciatore “normale”. L’equilibrio si spezza quando il protagonista acconsente a guidare l’esercito al salvataggio di alcuni carri, attraversando suo malgrado un luogo sacro. Da qui inizia la vendetta di Mano Che Segna Rosso, che farà di tutto per uccidere Johnson. Il bravissimo regista Sydney Pollack decide di rendere “simmetrici” gli incontri di Johnson, nel senso che il primo individuo che incontra nel film è anche l’ultimo, il secondo è il penultimo e così via. Così, al termine della pellicola, Mano Che Segna Rosso rivela con un semplice gesto di aver infine accettato la presenza di Jeremiah, con il quale chiude le ostilità. Significativa è, quindi, l’assenza di quello che era all’epoca l’immancabile duello finale tra il bianco e l’indigeno.
BUFFALO BILL E GLI INDIANI
È l’ultimo film, sia in ordine cronologico (è uscito nel 1976), sia per anno di ambientazione (si svolge nel periodo intorno al 1890). Protagonista è Paul Newman, che interpreta Buffalo Bill, noto per avere in un certo senso creato il western, portando il suo spettacolo sulla frontiera in giro per l’America e l’Europa. Essendo Paul un attore che mi piace molto, evito commenti partigiani e mi limito a dire in cosa, per me, il film è innovativo. Dopo aver già spiazzato il pubblico con il suo I compari (1971), il celebre Robert Altman torna al western presentandoci un eroe americano reso ridicolo e grottesco. Buffalo Bill è infatti vanesio, ubriacone, privo di spessore. Il suo esibizionismo e il suo continuo blablare nascondono una certa pochezza. L’esatto opposto di Toro Seduto, che pur con poche parole – tra l’altro non dette da lui, ma da un uomo della sua tribù che sembra leggergli nel pensiero e riportarlo fedelmente – riesce sempre a spiazzare sia i comprimari che il pubblico al di là dello schermo. Insomma, il bianco viene reso grottesco e il pellerossa nobilitato, anche quando quest’ultimo è solo un fenomeno da baraccone nel grande circo messo in piedi dal conquistatore. I difetti di Buffalo Bill sono qui ovviamente esagerati, in fin dei conti fu una vera leggenda del Far West, nonostante si sia auto-mitizzato in seguito. Tuttavia, questo contrasto tra i due personaggi è la vera originalità del film, che mette in risalto come, con la scomparsa del nativo americano, il mondo e l’America abbiano perso qualcosa di importante. La pellicola è, a mio avviso, un po’ sottovalutata, ma merita di essere riscoperta per il suo humour amaro e per il suo buon cast: Geraldine Chaplin è Annie Oakley, Harvey Keitel è Ed Goodman, mentre Burt Lancaster offre un gustoso cameo nei panni del giornalista Ned Buntline.
Quale degli approcci alla nuova visione del passato è il più efficace? Quale film trasmette meglio il messaggio che vuole veicolare? E quale è meglio riuscito nel suo complesso? Difficile, forse impossibile, dare una risposta definitiva (benché qualche parere personale mi sia sfuggito).
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A Man Called Horse (1970, USA, 114 min)
Soldier Blue (1970, USA, 112 min)
Little Big Man (1970, USA, 139 min)
Jeremiah Johnson (1972, USA, 108 min)
Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson (1976, USA, 123 min)
Strano a dirsi, li ho visti tutti tranne l’ultimo, una lacuna che andrà sicuramente colmata! Del resto anche per gli altri sono passati abbastanza anni da rendere necessario rivederli.
Ho sempre amato il western e tutti i titoli che hai citato sono ancora oggi tra i miei preferiti, questo forse spiega perché ho sempre avuto una passione per gli indiani d’america, questo pungi di film, quasi esclusivamente da soli, hanno ridato un minimo di giustizia ad una popolazione che fino a qualche anno prima al cinema, era rappresentata come dei pazzi urlanti perfetti per fare da bersaglio e cadere da cavallo. Gran post bravissimo! Cheers
Anch’io visti tutti tranne l’ultimo. Essendo di Altman devo assolutamente recuperare.