L’idea di William Rose è di quelle destinate ad entrare nella storia dei soggetti cinematografici: una banda di malviventi decide di sfruttare un’anziana e gentile signora inglese – un po’ mitomane, tanto che le sue continue denunce non vengono più prese in considerazione dalla polizia – per compiere una rapina sensazionale alla vicina stazione ferroviaria. Per farlo, il professor Marcus, il capo della banda, prende in affitto una delle stanze che la vecchietta, ormai vedova, ha deciso di dare in locazione, e chiede alla stessa se nella sua casa potrà esercitarsi con il quintetto d’archi in cui suona. Uno stratagemma studiato per pianificare e mettere a segno il colpo, ovviamente, ma che darà adito ad una serie di coloriti equivoci casalinghi.
Oltre ad essere l’autore del soggetto, Rose scrive anche la sceneggiatura (poco più di dieci anni dopo vincerà l’Oscar con quella di Indovina chi viene a cena?).
La regia viene affidata a Alexander Mackendrick, un nome sconosciuto ai più ed infatti questo film resterà di gran lunga la sua opera più celebre.
Rose e Mackendrick: due americani (il secondo, in realtà, uno scozzese trapiantato oltreoceano) per un film britannico e fortemente british, prodotto dagli Ealing Studios di Londra e ambientato nella capitale del Regno Unito.
Il caper movie si fonde con la commedia, anticipando di tre anni I soliti ignoti di Monicelli, e lo fa con un’efficienza ed uno humour tutto inglese. Merito di Rose, soprattutto, ma anche di un cast formidabile. L’anziana signora è interpretata dall’allora ultrasettantacinquenne Katie Johnson, di formazione teatrale, perfettamente a suo agio nei panni della nonnetta tenera e un po’ squinternata. Il capo della banda è un Alec Guinness già immenso, nel pieno della sua carriera (due anni dopo sarà il colonnello Nicholson ne Il ponte sul fiume Kwai, forse il suo ruolo migliore in assoluto). Guinness è memorabile nelle sue espressioni viscide, nelle sue boccacce alla Nosferatu, con cui cerca di tenere a freno la sua vera identità, nascosta nelle sembianze del rispettabile professor Marcus.
I quattro membri della sua banda sono molto diversi tra loro, e del resto non poteva essere altrimenti: l’energumeno buono Lawson, il timorato maggiore Courtney, il tetro Louis (macchietta che fa il verso ai protagonisti di gangster movie) e il bizzarro Robinson. Quest’ultimo è interpretato da un giovane Peter Sellers, al suo primo ruolo importante in carriera (ma ancora secondario). Un Sellers che dimostra già la sua verve di attore poliedrico cimentandosi anche con il doppiaggio delle voci dei pappagalli di Mrs. Wilberforce, quelli che interrompono le attività di pianificazione criminale dei cinque insieme alle frequenti richieste della signora di offrire loro una tazza di tè.
L’ironico gioco di parole del titolo originale, praticamente intraducibile (ladykiller sta ad indicare un uomo che fa il Don Giovanni), viene trasposto in un fortunato e suggestivo titolo italiano.
Una storia del genere, così ben calibrata e riuscita, non poteva non lasciare strascichi. Ed infatti, dopo essere stata eletta al tredicesimo posto dei migliori film inglesi del Novecento dal British Film Institute, nel nuovo Secolo è stata oggetto di un remake dei fratelli Coen e di una trasposizione teatrale.
I Coen, in particolare, si ispirano al soggetto di Rose per il loro undicesimo film, il primo ufficialmente diretto insieme, dato che fino al precedente la regia era sempre stata firmata dal solo Joel, con Ethan produttore e regista non accreditato. Prendono il soggetto di Rose e lo trasportano a Saucier, Mississippi. La tenera vecchietta inglese diventa una Big Mama del Sud, Marva Munson, un’anziana donna di colore, ormai vedova da vent’anni. Il pappagallo viene sostituito da un gatto e la rapina viene pianificata verso il vicino casinò galleggiante (siamo nel Mississippi del resto), il cui caveau dovrà essere raggiunto scavando un tunnel a partire proprio dalla cantina della signora Munson, in cui si esercita l’ensemble di appassionati di musica medievale (non più un quintetto d’archi classico, quindi).
I fratelli del Minnesota ci mettono dunque parecchio del loro, in una sceneggiatura verbosa e volutamente ampollosa. Ma soprattutto si inventano dei personaggi secondari – i membri dell’orchestrina che sembrano tutto fuorché dei tranquilli musicisti – che rappresentano un variegato carnet di caratteri: la banda del buco è formata da un ex soldato indocinese (il “generale”), da un giocatore di football americano che sembra aver preso troppe botte in testa (alcune delle quali ci vengono mostrate in un’accattivante sequenza in soggettiva), da uno svitato ragazzo di colore che è riuscito a farsi assumere come uomo delle pulizie nel casinò galleggiante che devono svaligiare e, infine, da un esperto di esplosivi che non riesce a non coinvolgere nel colpo la sua dolce metà, con sdegno degli altri componenti (una delle scene più comiche della pellicola, dal taglio tarantiniano).
Ma sono i due protagonisti, anch’essi totalmente rimaneggiati dalla penna dei Coen, a tenere in piedi l’intero film: la già citata signora Marva, interpretata ottimamente da Irma P. Hall, che si aggiudica il premio della giuria al Festival di Cannes, e il bizzarro professor Dorr, il ladro gentiluomo appassionato di Edgar Allan Poe (e qui si spiegano il gatto e vari altri riferimenti), interpretato da un Tom Hanks impeccabile ma sicuramente meno espressivo e intenso del professor Marcus di Alec Guinness. D’altra parte, buona parte del merito della riuscita del personaggio di Hanks è – più che della recitazione – proprio della sceneggiatura, che gli mette in bocca dialoghi e monologhi spassosi nel loro essere inutilmente (ed esageratamente) forbiti.
Ed è proprio l’ironia verbosa che i Coen riescono ad instillare nel film (così diversa dallo humour british di Rose/Mackendrick) uno dei punti di forza di un’opera che viene comunque ritenuta di secondo piano nella filmografia dei fratelli del Minnesota. Forse perché manca di quel guizzo cui i Coen avevano abituato nelle loro pellicole precedenti. Forse perché sconta il fatto di essere un remake. Eppure qualche soluzione tecnica interessante non manca, soprattutto in una fotografia che in certi frangenti pare richiamare il gotico di Tim Burton e in altri sembra anticipare lo stile colorato ed inquietantemente simmetrico che svilupperà Wes Anderson.
Filo conduttore musicale dei due film è il pregevole Minuetto di Boccherini, attivato su un disco per simulare le prove delle due orchestrine da camera. Un pezzo così leggiadro e barocco che di suo aumenta l’effetto comico dell’equivoco di fondo dei finti musicisti.
Entrambi i due The Ladykillers (il secondo titolo è stato trasposto in italiano con la mera elisione dell’articolo) sono dei piacevolissimi caper movie, con un interessante finale tragicomico ed un epilogo spassoso e paradossale. Se il primo è entrato a tutti gli effetti nella storia del cinema inglese, del secondo non si può dire che non sia all’altezza del suo predecessore, grazie al prezioso tocco dei Coen e ad un’ironia surreale che lo rende più adatto ai nostri tempi.
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The Ladykillers (1955, Gran Bretagna, 97 min)
The Ladykillers (2004, USA, 104 min)
Bellissimo “Doppio spettacolo” oggi 😉 Ritengo che il film dei Coen sia un po’ sottovalutato, non se ne parla quasi mai eppure a me è sempre piaciuto, ha solo la colpa di arrivare dopo tanti filmoni e dopo (quello sì) un filmino, quello a cui in uno strambo Paese a forma di scarpa è stato dato un titolo osceno, ma che non ha nulla a cui sparire con questo film qui. Cheers!
concordo, io l’ho trovato molto piacevole, come ho scritto qui sopra…
poi è vero che dopo Fargo, Lebowski, ecc. la gente si aspetta sempre qualcosa di straordinario ma ogni tanto ci sta fare anche dei film semplicemente godibili, come questo…
quanto al filmino che citi, a mio avviso faceva parte del percorso dei Coen nell’esplorazione dei generi ed in effetti quello pseudo-sentimentale non è che gli sia riuscito granché…
Ho visto solo quello dei Coen che mi è piaciuto pur essendo appunto un minor della loro fantastica produzione.
Di MacKendrick un notevolissimo noir è Piombo rovente, guardalo ti stupirà 🙂
lo conosco di nome ma non l’ho visto… se mi dici così però lo metto sicuramente in lista…
però credo proprio che di Mackendrick il più famoso resti quello con la simpatica nonnetta, che a questo punto devi vedere!! 😉
Mi mancano entrambi, dovrò rimediare 😉
Sullo stesso tema – credo addirittura sia una specie di reinterpretazione – Woody Allen nel 2000 presentò “Criminali da strapazzo”: per mascherare la loro attività criminale – mi pare uno scavo per raggiungere una banca – i criminali aprono una finta pasticceria di facciata… che però comincia a fruttare più soldi del colpo stesso 😀
ah ah, bellissimo Small Time Crooks!!…
non è ovviamente uno dei film migliori di Woody Allen, ma è uno di quelli che più mi avevano divertito, almeno tra gli “ultimi”…
poi solo l’idea della pasticceria che frutta più del colpo è una trovata che solo uno come Woody poteva avere…
comunque sì, sono tutti film appartenenti a quello che potrebbe essere definito un sotto-genere di un sotto-genere, ossia la versione commedia del caper movie…
All’epoca Woody non era già più Woody ma qualcosa di carino riusciva ancora a sfornarlo: ora è davvero raro che riesca a raggiungere anche solo la sufficienza. E lo dico con dispiacere, visto che lo seguo assiduamente da quando avevo 12 anni 😉
Sì il Woody anni settanta resta il top… dai novanta ad oggi ci trovo alti e bassi, ma di certo niente più a quei livelli…
wait! wait! wait! what? 😀
Non sono d’accordo su Woody, anche i suoi ultimi lavori sono cesellati di fino. Magic in the Moonlight è adorabile, Irrational Man è intrigante, Cafè Society è delizioso.
Ma sì, come dicevo ci sono alti e bassi, a me sono piaciuti anche Blue Jasmine e il vituperato Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni… però i livelli anni settanta e ottanta restano inarrivabili
Certamente diversi ma ugualmente eccezionali e tanto divertenti 😉
assolutamente d’accordo!