Dunque ci siamo: eccoci al podio della nostra personalissima classifica dei migliori 20 film western. Come vedrete, tratteremo di tre opere molto differenti tra loro ma che hanno tutte delle valide ragioni per essere prese in considerazione da un amante del cinema. Per iniziare, partiamo dalla fine, la fine di un’epoca. In tutti i sensi: cinematograficamente parlando, certo, ma anche storicamente, con una pellicola estremamente crepuscolare. Quando la vidi la prima volta, quasi per caso, complici la stanchezza, gli osceni tagli e le interminabili pause pubblicitarie, non riuscii ad apprezzarla. Volendo giustamente darle una seconda chance, me la procurai in versione integrale in DVD e… bè, decisamente tutta un’altra storia. Ma andiamo con ordine…
Quando Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch) uscì nelle sale nel 1969, una ventata di novità stava attraversando il cinema. La New Hollywood irrompeva prepotentemente nelle sale e tutti i generi, in un modo o nell’altro, ne furono coinvolti. Così accadde al cinema western, che vide un accrescersi di prodotti collegabili al sotto-genere noto come “revisionista” nel quale, come suggerisce il nome, i temi cari all’epica della frontiera venivano rivisti sotto una nuova luce.
Complice anche la ventata di violenza e crudo iperrealismo sfociante nell’assurdo proveniente da oltreoceano, il genere vide una nuova fase meno legata al tema della romantica idea dell’eroe che doma la natura selvaggia per passare ad una più nuda-e-cruda, nella quale di poetico c’è ben poco. Caposaldo di questo cambiamento fu senza dubbio Sam Peckinpah, che ne fu il maggiore cantore sia nel western propriamente detto (Sierra Charriba, La ballata di Cable Hogue, Sfida nell’Alta Sierra), sia in produzioni western in chiave contemporanea (L’ultimo buscadero, Voglio la testa di Garcia). È però (quasi) indubbio che la sua opera più riuscita, quella che più ha lasciato il segno a Hollywood, sia stata appunto Il mucchio selvaggio.
Ambientato alla fine dell’epoca della frontiera, quando il mondo così come i vecchi rapinatori protagonisti lo conoscono sta scomparendo, è il canto del cigno di una pagina di Storia americana destinata a non tornare mai più. Nel tentativo di appendere dignitosamente le pistole al chiodo, i temibili ma outdated fuorilegge decidono di azzardare un colpo grosso in Messico, dove la nuova era sembra tardare ancora un po’ ad arrivare, complice la Rivoluzione. C’è qualcosa di commovente in questi avanzi di galera. Pur sapendo che sono a tutti gli effetti degli assassini e dei criminali, è inevitabile provare delle simpatie per loro, per il loro essere dei fossili in un mondo al quale non sono in grado di adattarsi. Si percepisce fin da subito che la vicenda non prenderà una bella piega.
Il cast di stelle messo insieme da Peckinpah è di tutto rispetto. Non vi tedio con un elenco di nomi – che si trova facilmente – ma si tratta di un assortimento di volti noti del cinema di genere che sembrano volere a loro volta prendere in mano per l’ultima volta le pistole. Così non sarà – molti di loro torneranno a calcare le polverose scene della Frontiera – ma si tratta in ogni caso di veterani, quasi tutti intorno alla cinquantina, o oltre, scelta che contribuisce ad aumentare il clima da fine di un’epoca che pervade il film.
Tuttavia, l’elemento per cui è soprattutto noto questo bellissimo capolavoro è la violenza, mutuata forse dallo spaghetti western ed ingigantita a livelli surreali. Mai si era visto prima di allora un simile sfoggio di scene di stragi, che sembrano anticipare lo stile di Tarantino, seppure con meno succo di pomodoro. La scena finale è una lunghissima sequenza nella quale ogni genere di arma a disposizione viene fatta cantare, consumando letteralmente diecimila pallottole, mostrando una totale mancanza di pietà verso il nemico. Il movente è, forse, l’unico elemento nobile e romantico della storia: vendicare un amico ucciso. Eppure, esso viene sminuito dal gusto per la mattanza fine a se stessa, dall’accanirsi contro l’avversario, dal non fermarsi fino a ché non si viene a propria volta freddati da un colpo fatale. È davvero per l’amico che i protagonisti fanno quello fanno? O stanno forse gridando di rabbia contro il mondo che è cambiato, contro la loro inadeguatezza, cercando una fine che sia almeno lontanamente gloriosa?
Il montaggio della battaglia che conclude il film è di per sé un capolavoro di pazienza e meticolosità. Oltre 3.600 inquadrature, alcune delle quali di pochi fotogrammi, compongono il mosaico finale, le cui riprese si sono svolte per dodici giorni. La fotografia di Lucien Ballard riesce a districarsi con maestria tra i primi piani e le riprese a tutto campo, alternando i volti di uccisori e uccisi con le più ampie scene che spaziano su edifici o parti del forte. La durata quasi spropositata (per quanto mi riguarda, credo di aver visto solo Zulu e Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate con scene di scontro finale più lunghe) è resa scorrevole dall’interpretazione degli attori, molto convincenti nella rabbia che esprimono, dall’abilità registica nel dosare sapientemente i minuti e i secondi dedicati ad ogni singola scena, e dall’impegno nella ricostruzione di armi, costumi e azione.
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Ci avviciniamo alla vetta e già sento le pallottole fischiarmi intorno 😛
Ah, dimenticavo una curiosità. All’epoca è uscita in Italia la novelization del film, anche se con una copertina che avrebbe tenuto lontano qualsiasi acquirente 😀
Ah ah la novelization l’ho sempre trovata un’operazione poraccia 😀 Salvo soltanto quella di Fronte del porto perchè effettivamente Schulberg sapeva scrivere davvero bene
Sicuro che Fronte del porto fosse una novelization e non il romanzo originale?
Comunque questa sensazione è condivisa in Italia perché il nostro Paese si è assicurato di importare quasi sempre solo le poracciate – tipo la roba scritta da Alan Dean Foster, che ammazzerebbe il fan più sfegatato. Ti assicuro che ci sono novelization che sono meglio del film da cui sono stratte! Solo che le trovi magari in collane come “Segretissimo” o edite da Sperling e Kupfer, quindi roba scomparsa nel nulla cinque minuti dopo essere uscita…
Sì sì è una novelization e l’ho scoperto solo dopo aver letto il romanzo 😆 Ti credo sulla parola, probabilmente io sono una delle tante “vittime del mercato editoriale italiano” 😁
Lo sono anch’io, ho letto certe mattonate che era da denunciare l’autore, ma per fortuna mi sono capitate invece alcune chicche che mi hanno fatto amare il genere.
Purtroppo da anni le novelization sembrano quasi vietate in Italia, ma dagli anni Settanta ne sono usciti a fiumi, e molte sono da riscoprire 😉
Ah, grazie della super-dritta su “Fronte del porto”, pensa che ho il libro da anni ma ancora non l’ho letto. Scopro che Budd Schulberg l’ha scritto proprio dalla sua sceneggiatura per il film, quindi diciamo che ha un valore aggiunto: non si tratta di un autore che reinterpreta la sceneggiatura di un altro. Inoltre devo aggiornare il mio elenco: finora la novelization più vecchia giunta in Italia risultava essere “King Kong” del 1971 😉
non riesco proprio ad immaginare come possa riuscire un’operazione come quella della novelization de Il mucchio selvaggio…
cioè boh, come fai a rendere quel finale pazzesco?
devi scrivere una poesia futurista di Marinetti da venti pagine 😀 😀
Se l’autore è bravo si può eccome, ma appunto dev’essere bravo.
Visto che sul Zinefilo ogni tanto pubblico dei capitoli tratti da novelization, la prossima volta metto il capitolo finale del Mucchio Selvaggio, così vediamo se ti piace ^_^
ok, venduto!! 😉
eccolo qui il link al capitolo finale della novelization de Il mucchio selvaggio… che il grande Lucius ha postato in ossequio a questa promessa…
ero diffidente ma posso confermare: è davvero ben scritta… take a look…
Contento ti sia piaciuto ^_^
Che attorone William Holden! Eppure se lo filano in pochi, quando si fanno le rassegne delle grandi star del passato… Questo film l’ho consumato di visioni, ma è passato parecchio tempo dall’ultima visione.. quasi quasi… 😀
su Holden ti comunico, se già non lo sapevi, che il 17 aprile ricorre il centenario dalla nascita…
te lo dico per tempo così, se ti andrà, potrai preparare un omaggio come si deve!!! 😉
Mi alzo in piedi ed applaudo, non ho altro da dire, è un capolavoro totale! 😀 Cheers
thanks God for Peckinpah…
finalmente entriamo in un territorio a me più congeniale, perché mentre sui western dell’età classica coltivo una discreta ignoranza, su quelli della New Hollywood sono preparatissimo… ed è inutile dire che questo è uno dei migliori in assoluto del periodo, soprattutto se escludiamo quelli che affrontano la questione indiana (qui totalmente assente), che può essere quasi considerata un filone a sé del western della New Hollywood…
The Wild Bunch si innesta invece nel filone dei film iper-violenti, che era stato inaugurato due anni prima da Gangster Story di Arthur Penn (ovviamente lì non siamo a questi livelli, ma il finale è abbastanza significativo della svolta nella rappresentazione cruda della violenza che si portò avanti con la New Hollywood, affossando definitivamente il Codice Hays)…
e Peckinpah, inutile dirlo, era un maestro in ciò, che si trattasse di western o di altri generi (vedi il successivo Cane di paglia)…