Oggi agli antipodi si festeggia l’Australia Day e per la precisione si tratta del 230° anniversario dello sbarco della Prima Flotta, ovvero le navi che portarono i primi coloni e prigionieri ad abitare stabilmente il continente. È una festa un po’ controversa, dal momento che gli aborigeni la appellano “Invasion Day” o comunque utilizzano epiteti meno celebrativi. Del resto, qualche ragione di lamentela ce l’hanno. Avete presente quello che in America è stato fatto agli indiani? Bè, probabilmente agli aborigeni è andata peggio. Ma non sono qui per tediarvi con la Storia bensì con il cinema.
Il tema del difficile rapporto tra popolazione bianca e nativi è stato trattato sul grande schermo con una certa frequenza. Tuttavia, pur avendo il cinema australiano una storia molto lunga, è soprattutto a partire dagli anni ’70 che il maltrattamento degli indigeni ha iniziato ad essere affrontato più assiduamente e approfonditamente. Di seguito parlo brevemente di cinque film che hanno per argomento principale il conflitto interculturale, analizzandoli per periodo di ambientazione.
Collocato a inizio Novecento, The Chant of Jimmie Blacksmith (1978) parla del difficile (diciamo pure impossibile) inserimento di un mezzosangue nella società dei bianchi. Jimmie si barcamena tra un mestiere e l’altro, sempre sfruttato dai suoi datori di lavoro e mai trattato da parigrado. Cerca anche di stabilire una famiglia con una ragazza di origini europee, che però prima lo tradisce e poi lo lascia per cercare migliori condizioni di vita lontano da lui. Il film mostra come tutto spinga il giovane Jimmie verso l’abbandono di ogni tentativo di inserimento, fino ad arrivare alla negazione del rispetto verso i bianchi. Quella che doveva essere solo una minacciosa goliardata compiuta da lui e da un suo amico – spaventare dei coloni con delle asce – si trasforma in una carneficina. Può sembrare assurdo che a inizio secolo scorso un evento del genere potesse succedere, ma va ricordato che il conflitto armato tra bianchi e neri perdurò per 150 anni, fino al 1928 circa. E, come se non bastasse, la vicenda è ispirata a fatti reali.
L’opera, per la regia di Fred Schepisi e con Tom E. Lewis come protagonista, si concentra soprattutto sull’oppressione subita dal mezzosangue, trattato come un paria e, pur non minacciato fisicamente, messo nell’impossibilità di vivere normalmente. Il finale si concede un passaggio verso una maggiore quantità di azione, con Jimmie e i suoi complici braccati dalla legge per essere condannati a morte. La critica sociale, palese ma non esplicitata fin verso la fine, è resa chiara dalle parole di un insegnante bianco, che commenta amaramente l’influsso negativo della società europea sullo spirito degli aborigeni.
The Tracker – La guida (The Tracker, 2002), di Rolf de Heer, è invece ambientato negli anni ’20. Tre rappresentanti della legge stanno inseguendo, grazie all’aiuto di una guida indigena (David Gulpilil), le tracce di un fuggitivo anch’esso aborigeno, accusato dell’omicidio di una donna bianca. Pur essendo estremamente abile nel proprio mestiere – e ne dà prova più volte – il tracker sembra non avere intenzione di consegnare l’inseguito nelle mani della legge bianca, rallentando più volte il gruppo di inseguitori. Oltre all’affinità culturale, l’uomo ha più di un motivo per stare dalla parte del ricercato. Il capo della spedizione, infatti, è un razzista violento che pregusta il momento in cui metterà le mani su un aborigeno, più che voler far rispettare la legge. Durante la ricerca, infatti, si lascia andare a stragi di nativi, oltre a tenere sempre il tracker incatenato per il collo.
L’opera è interessante e il regista De Heer è noto in patria per il suo sperimentalismo (il suo film più famoso è probabilmente Dieci canoe). Anche in questo caso non mancano scelte autoriali curiose, come quella di sostituire i momenti in cui avvengono uccisioni con fermo-immagine su dipinti che le rappresentano. Ciò che rende pregevole la pellicola è in particolare il gioco psicologico che si verifica tra i cinque protagonisti, ciascuno dei quali con una propria personalità delineata e capace, in certi casi, di evolvere nel corso della vicenda. Ogni membro della spedizione ha infatti un diverso rapporto con gli aborigeni e la loro cultura. A fare da sottofondo è la canzone “All men choose the path they walk”, che sottolinea l’importanza dell’io interiore nel determinare la propria evoluzione come persone. In Italia il film ha avuto una buona distribuzione in televisione e per l’home video, nel caso non l’aveste visto e voleste provvedere.
La generazione rubata (Rabbit-Proof Fence, 2002, regia di Phillip Noyce) si svolge una decina di anni dopo e tratta una delle tematiche più scottanti nel rapporto tra aborigeni ed europei, ovvero quello che dà il titolo (italiano) al film: centinaia di bambini indigeni o mezzosangue vennero sottratti ai loro genitori per essere affidati alle cure di famiglie e istituti bianchi, affinché li educassero “in maniera appropriata”, secondo i “canoni della cultura più civilizzata”; tale pratica proseguì per decenni ed è ancora oggi argomento di grande dibattito. La pellicola si concentra su tre bambine che riescono a scappare dal luogo in cui sono state portate con la forza e decidono di tornare dalla loro famiglia. Per farlo, devono seguire la recinzione contro i conigli, una rete lunga migliaia di chilometri realmente usata in Australia per arginare la marea di lagomorfi che, moltiplicandosi da pochi esemplari iniziali introdotti dall’Europa, hanno devastato l’ecosistema. La rete, infatti, arriva fino alla vera casa delle bambine.
Il film è stato criticato sia da chi lo reputa troppo severo nei confronti delle politiche dei bianchi, sia da chi ritiene che sia troppo edulcorato. Io personalmente l’ho apprezzato (non solo io, eh) perché, oltre a mostrare uno spaccato di Storia del Paese, nel suo essere forse troppo “positivo”, trasmette un messaggio di speranza. Le bambine, infatti, incontrano diverse persone che le aiutano nel loro cammino: bianchi, neri, giovani, vecchi, uomini, donne… tutti in qualche modo danno loro una mano a fuggire dagli inseguitori. Un elogio, forse, di quel cameratismo tipicamente aussie che può essere la chiave per superare la difficile convivenza tra culture. La pellicola è ispirata ad una vicenda reale, ma sceglie di concludersi con un finale felice, mentre nella realtà altre vicende seguirono, decisamente poco allegre (altri rapimenti, altre fughe…). Una scelta criticata, come dicevo, ma che può essere condivisa se si interpreta il film come un messaggio anche per l’oggi. Questo film ha avuto buona distribuzione in Italia, giungendo anche al cinema.
Diverso approccio ancora è quello de L’inizio del cammino (Walkabout, 1971), per la regia di Nicholas Roeg. Negli anni ’60, una ragazza inglese e il suo fratellino vengono abbandonati nel bush dal padre e qui devono sopravvivere nonostante la loro inesperienza, cercando un modo per tornare a casa e non morire di stenti. Nel loro girovagare incontrano un giovane aborigeno che sta compiendo il suo ritiro rituale nella natura (il walkabout), durante il quale deve sopravvivere dimostrando di essere degno di passare all’età adulta. Grazie al suo aiuto, i due riescono a salvarsi ed imparano ad apprezzare la cultura diversa con cui si approcciano.
Praticamente al suo esordio, Roeg fu elogiato a suo tempo dalla critica, ed in effetti è probabilmente il migliore tra i film di cui parlo per quanto concerne la fotografia. Ai bellissimi paesaggi si alternano primi piani di persone e animali, con uno sguardo attento alla natura e un (neanche troppo) sottile erotismo che pervade tutta la pellicola; evidente è l’attrazione tra il giovane e la ragazza, favorita dalla visione dei loro corpi nudi (e comunque in effetti Jenny Agutter era un bel bocconcino). L’opera è intrisa di realismo, le scene di caccia non sono simulate, e si cerca di sottolineare il divario tra l’uccisione di animali come sport e consumismo sfrenato e quella come rituale e necessità. La cultura migliore non è necessariamente quella tecnologicamente più avanzata. Un incontro tra le due pare realizzabile, anche se tra i giovani permane un tragico divario impossibile da colmare del tutto. Pur uscito in Italia, il film non ha avuto purtroppo una diffusione particolarmente buona, ed è un peccato perché si tratta di un prodotto meritevole.
Charlie’s Country (2013), infine, sempre di Rolf de Heer, è una realizzazione recente presentata anche al festival di Cannes; il solito Gulpilil (che è onnipresente un po’ come Wes Studi per gli indiani americani e Temuera Morrison per i maori) ha vinto il premo un certain regard. Ambientato ai giorni nostri, è una schietta trasposizione delle difficoltà che incontra un nativo nella società dell’Australia moderna. Con pochi fronzoli – e proprio per questo ancora più coinvolgente – evidenzia il disprezzo o, nel migliore dei casi, il paternalismo con cui i bianchi guardano agli indigeni. Charlie vorrebbe vivere come i suoi padri, ma gli è reso impossibile dai paletti imposti dalla cultura dei vincitori. Si accontenterebbe anche di vivere e basta (forse), ma lo scherno e i pregiudizi di cui è circondato fanno sì che anche ciò risulti difficile. I poliziotti locali lo tengono sempre d’occhio e gli vietano di cacciare con la lancia, di avere un fucile, di vivere nel bush, e non riescono ad impedirgli di bere perché è uno dei pochi indigeni ad avere il documento che gli permette di acquistare alcolici.
La fotografia è pulita, i dialoghi semplici, le scenografie evidenziano il divario tra natura e urbanità, con la prima che inizia a sua volta ad essere sempre più “stretta”, “a misura d’uomo (bianco)”.
Charlie’s Country è un titolo con dell’amara ironia: è infatti il Paese di Charlie, nel senso che ci vive, ma non è realmente suo. La cultura aborigena è uscita sconfitta dall’incontro con i bianchi, nondimeno rimane importante preservarla, come patrimonio dell’Australia e non solo. Questo il messaggio che trapela, pur nella sua triste malinconia.
Da questi cinque film – che trattano ciascuno in modo diverso del difficile rapporto tra colonizzatori e colonizzati – emerge chiaramente come la Storia australiana sia stata travagliata. Le guerre di frontiera sono finite, e al passato appartengono anche le politiche di rieducazione, tuttavia permangono un divario socio-economico, un disprezzo malcelato e una difficile accettazione. Come in altri casi simili, il cinema si è fatto portatore del compito di mettere in risalto ingiustizie e attriti. Se questo serva realmente è difficile dirlo, ma anche la testimonianza ha una sua importanza nel forgiare l’immagine di una nazione.
Una bella e interessante panoramica! Cercherò di recuperarne qualcuno. La prima volta che sono entrata in contatto col problema degli aborigeni in Australia è stato con “L’ultima onda” del 1977 per la regia di Peter Weir. Un film non indimenticabile in verità, tuttavia ancora oggi ricordo alcune immagini potenti che raccontavano la desolazione e l’abbrutimento degli aborigeni, emarginati e discriminati.
gran bell’articolo… certo che sul cinema australiano non ti batte nessuno!
ammetto non soltanto di non averne visto nessuno, ma che nemmeno li conoscevo questi cinque titoli…
quello che mi ispira di più è Walkabout, anche perché il Roeg degli anni Settanta ha fatto delle cose niente male…
bella l’idea di presentare cinque film in ordine temporale, una sorta di storia dell’Australia moderna come vista dal cinema…
insomma, grande!
Il tema degli indigeni australiani mi ha sempre incuriosito. Il primo che ha attirato la mia attenzione è Once Were Warriors su temi di analoga “convivenza” dei maori in Nuova Zelanda. The Tracker (acquistato a 3 euro su una bancarella) e La generazione rubata li ho visti e ho preferito il primo al secondo. Ti ringrazio per la segnalazione degli altri film, cercherò sicuramente di vederli.
Sottoscrivo parola per parola la tua conclusione sul cinema: è vero, il cinema non è solo intrattenimento, ma ha la possibilità di portare alla luce ingiustizie, farsi testimone e portatore di un messaggio di critica e anche speranza di situazioni taciute o sconosciute ai più. L’ho sperimentato su di me stesso: sono venuto a conoscenza della situazione degli albini in Africa grazie a un libro, ma un film mi ha sbattuto in faccia le persone reali e la loro condanna a essere considerati “fantasmi”, “invisibili” alla società, non solo africana. Se ti interessa il tema, batti un colpo che ti scrivo il link ai miei post.
Se mi dai il link ci do un’occhiata anche perché anch’io ne ho letto (non libri veri e propri ma su riviste e giornali) e un film su quel tema mi potrebbe interessare…😉
Mi fa molto piacere!
Il film, un docu-film per l’esattezza, si chiama In The Shadow of the Sun
https://redbavon.wordpress.com/2016/03/11/in-the-shadow-of-the-sun-albini-in-africa/
Il libro che mi ha spinto a saperne di più è invece Ombra Bianca di Cristiano Gentili
https://redbavon.wordpress.com/2013/10/07/ombra-bianca/