Il settimo lungometraggio di Jean-Luc Godard – uscito in patria nel 1964 e apparso in qualche sala italiana in quello stesso periodo con lo strambo nome di Separato magnetico – è di recente tornato nei cinema italiani, oltre cinquant’anni dopo la premiere, in versione restaurata in lingua originale con sottotitoli (e il fatto che a un mese di distanza da qualche parte sia ancora proiettato è sicuramente una bella notizia). È il film successivo ad un capolavoro come Il disprezzo, il che può spiegare sia la pigrizia nella distribuzione italica di quel tempo, sia il fatto che Godard stesso nutrisse un certo disappunto verso questa sua opera, da egli ritenuta sostanzialmente non riuscita.
Non la pensano così i cinefili che in questo mese si sono fiondati a recuperare quest’opera del Maestro della Nouvelle Vague, priva (per ora) di distribuzione in home video (in italiano, ovviamente).
Né la pensava così Quentin Tarantino quando si ispirò a questo film per dare il nome alla casa di produzione fondata insieme a Lawrence Bender, A Band Apart, o per alcune idee dei suoi primi due importantissimi lungometraggi, quelli che consentirono al regista di Knoxville di fare il botto: Le iene e Pulp Fiction.
Ma andiamo con ordine.
Bande à part narra delle vicende di due amici, Arthur e Franz, due perdigiorno che trascorrono le loro giornate scorrazzando per le strade di Parigi a bordo della loro Simca cabriolet. Dopo aver sentito da una loro compagna di classe di un corso d’inglese, la giovane Odile, che il pensionante che alloggia presso sua zia ha con sé una grossa quantità di denaro contante, Arthur e Franz decidono di tentare il colpo gobbo che li sistemerà per il resto dei loro giorni. Per farlo, hanno però bisogno della complicità della ragazza, che entrambi tentano di corteggiare. Ancorché meno elegante e avvenente di Franz, il prescelto da Odile sembra essere Arthur.
Il colpo alla fine si farà ma nulla andrà secondo i piani…
Dal punto di vista contenutistico, Bande à part sembra un Jules e Jim anarcoide e moderno, che dallo pseudo war movie di Truffaut si sposta dalle parti del crime.
Per quanto riguarda lo stile, invece, l’opera è sicuramente meno stravagante rispetto ai precedenti film di Godard. Sì, c’è la scena in cui i tre protagonisti mettono in atto un giochino per provare quanto possa essere lungo un minuto di silenzio. La musica cessa, così come gli effetti sonori. Anche lo spettatore partecipa a quell’immaginario gioco del silenzio. Un minuto apparentemente interminabile, che in realtà si interrompe dopo poco più di trenta secondi, quando Franz decide che può bastare così. Una trovata interessante, ma nulla che possa essere paragonato alle peripezie di À bout de souffle.
Quello che nel muto era una regola, con Godard diventa una precisa scelta stilistica, anarchica e anticonvenzionale. La stessa scelta verrà proposta dal regista Rian Johnson, oltre cinquant’anni dopo, in un film di tutt’altro genere (Star Wars: Gli Ultimi Jedi) e con tutt’altre finalità. Ma nel Paese in cui le class action più impensabili sono ormai diventate un’ossessione per le corporation, i cinema si cauteleranno inserendo appositi disclaimer per avvertire lo spettatore del fatto che assisterà ad una sequenza contenente dieci secondi di totale silenzio, potenzialmente disturbing (mentre quello di Godard era un mezzo minuto più che altro embarrassant).
Bande à part è innanzitutto concepito come una sorta di b-movie made in France, quei film che tanto andavano di moda, a quei tempi, negli Stati Uniti e che Godard prova a replicare vestendo i panni del Corman europeo (parodiandolo anche un po’, come nel finale). Ma Corman è Corman e Godard è Godard e Bande à part, pur se girato in tempi limitati e con un budget ridotto, riuscirà ad entrare, a suo modo, nella storia del cinema.
Il film è di fatto un b-movie, si diceva. E dal più grande ammiratore contemporaneo di b-movie, Quentin Tarantino, verrà ripescato come fonte di ispirazione: la vicenda in generale e la parte finale in particolare ricordano a tratti Reservoir Dogs, primo lungometraggio diretto da Tarantino. La mitica scena del ballo, invece, ha chiaramente ispirato quella del twist di Pulp Fiction.
Quella del ballo è soltanto una delle sequenze memorabili della pellicola, oltre ad essere una delle più suggestive, con quella danza semplice ma (im)perfettamente coreografata, riempita di battiti di mani, schiocchi di dita e di interruzioni della musica che permettono a Godard di introdurre una voce narrante (la sua) che racconta cosa stanno pensando i tre in quei precisi istanti. Una scena inebriante, avvolgente e ricca di spensieratezza.
Un ballo che vede coinvolti i tre protagonisti: Sami Frey, Claude Brasseur e una sensuale Anna Karina, la giovane femme fatale della pellicola che fa innamorare i due malviventi, non si sa se per vero interesse o per opportunismo.
A quei tempi Anna Karina era moglie di Godard, anche se i due non se la passavano bene: il matrimonio era sulla via del tramonto e la donna era in cura per una depressione che l’aveva portata a due tentativi di suicidio. Bande à part è il film che probabilmente salvò la vita all’attrice, come dichiarerà lei stessa in un’intervista al Guardian. Nell’ingaggiare Anna Karina, Godard svolse dunque anche una funzione socio-psicologica (per non dire assistenziale), ma considerata l’ottima prova dell’attrice, l’intuizione del regista può dirsi pienamente riuscita.
Grandiosi, accanto a lei, Sami Frey e Claude Brasseur, così diversi eppure così in sintonia nel ruolo dei due lestofanti che organizzano e mettono in atto la rapina, attirando il film nelle spire dell’heist movie.
Altra sequenza memorabile è quella della visita del Louvre che i tre compiono di corsa, in un momento di svago, soltanto per battere il record di un americano che aveva girato l’intero museo in 9 minuti e 45 secondi. Loro ci riusciranno in 9 minuti e 43 e quando Tarantino, sempre in Pulp Fiction, fa arrivare Winston Wolf a casa di Jimmie Dimmick per “risolvere i problemi” in 9’37”, non si può non pensare che abbia voluto omaggiare, anche in questo caso, il Maestro Godard e questo suo film. Di sicuro lo ha fatto Bertolucci in The Dreamers, ove è presente una citazione esplicita (rectius, un rifacimento) di questa scena.
Si tratta di un momento di digressione, una sequenza che poté essere girata anche grazie al fatto che in quegli anni al Ministero della Cultura c’era nientemeno che André Malraux, uno che di certo non si sarebbe messo di traverso di fronte ad un’idea creativa come quella del cineasta della Nouvelle Vague.
Insomma, Bande à part è un Godard in purezza, che come un buon vino rosso va lasciato decantare. La prima mezz’ora è francamente un po’ pesante e il regista ci mette un buon terzo di pellicola a fare suo lo spettatore. Ma quando inizia a far entrare in gioco le idee, quelle con la i maiuscola, allora ci si inizia a divertire e ad assaporare il clima della Nouvelle Vague, il suo retrogusto agrodolce, la sua malinconica armonia.
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Bande à part (1964, Francia, 97 min)
Regia e Sceneggiatura: Jean-Luc Godard
Soggetto: Dolores Hitchens
Fotografia: Raoul Coutard
Musiche: Michel Legrand
Interpreti principali: Anna Karina (Odile Monod), Sami Frey (Franz), Claude Brasseur (Arthur Rimbaud)
Film iconico, per me propedeutico a comprendere l’opera di Godard e la Nouvelle Vague. Le riprese di una Parigi ormai scomparsa sono l’elemento di maggior fascino, insieme alla meravigliosa espressività di Anna Karina.
sì Godard aveva questa capacità di scovare delle location tali da non far nemmeno sembrare che il film fosse girato nella Ville Lumière…
penso anche ad Alphaville, stessa cosa…
Sarà pure banale da dire (spoiler: lo è) ma è questo è il mio Jean-Luc Godard preferito, Tarantino e Bertolucci hanno pescato da qui, come talenti di quelli di Godard ne abbiamo visti pochi, un vero innovatore. Cheers!
innovatore è decisamente la parola giusta!
Aggiungo anche quando gli amici , osservando un ignaro quanto impassibile passeggero del tram, provano a indovinare cosa stia pensando, e come la sua espressione potrebbe significare cose diverse… evocazione dell’effetto Kulesov! E altra dimostrazione di come JLG amasse giocare e citare con le teorie del cinema.
verissimo, anche quella scena è degna di menzione e meno male che lo hai fatto tu perché io l’avevo colpevolmente dimenticata! 😉