Ci avviciniamo alla top ten di questo nostro viaggio intergalattico alla scoperta dei migliori film di fantascienza. In questa tornata “scopriremo” (vabbè si fa per dire, qua i lettori ne sanno ben più di noi) che gli arcani mondi non sono soltanto oltre stelle e nebulose, ma anche nei meandri più reconditi della nostra mente. E che per fare della buona fantascienza non sempre è vincente ricorrere in modo massiccio all’armamentario tecnologico dell’era digitale… Può un pupazzo o una vecchia maschera di gomma battere la grafica del computer? Oh sì, certamente. Può una storia particolarmente geniale fare a meno di memorabili interpretazioni? Anche. Potenza della narrazione, lo strumento più antico di cui dispone l’uomo.
L’anno scorso si è concluso con The War il buon ciclo reboot de Il pianeta delle scimmie, franchise nato dalla penna di Pierre Boulle. Esattamente cinquant’anni fa Planet of the Apes fu adattato per la prima volta sullo schermo – coevo di un certo 2001: Odissea nello spazio – con la sceneggiatura di Michael Wilson e Rod Serling (il mitico creatore della serie Ai confini della realtà) e la regia di Franklin J. Schaffner, dai cantieri della 20th Century Fox. Ebbene, questo film è stato per parecchio tempo uno dei miei guilty pleasures. Anni fa infatti non godeva di grande reputazione, se confrontato con i gioielli della sci-fi successiva; venne probabilmente riabilitato dopo il flop del pessimo remake firmato da Tim Burton nel 2001, in un paragone che consente di misurare il paradossale abisso che può esserci tra una robusta vecchia fantascienza di cartapesta (o quasi) e il sovradosaggio delle moderne tecniche digitali. Le atletiche superscimmie di Burton risultarono ridicole a confronto con le mitiche maschere di gomma del ‘68.
Schaffner, che negli anni sessanta era noto in America soprattutto per aver curato l’immagine televisiva di John F. Kennedy, assunse la regia del progetto dimostrando di saperci fare. L’incipit del film, i primi venti-venticinque minuti che vedono l’ammaraggio di Taylor e compagni e la loro esplorazione di una vasta landa desolata, sono da antologia e incollano ancora oggi lo spettatore alla poltrona; anche la sequenza della caccia agli umani è strepitosa, pur con tutti i suoi manichini volanti dai dirupi e le manganellate palesemente rallentate. Perfino i feticci lungo la Zona Proibita, quelle specie di spaventapasseri fatti a croce, riescono ad essere creepy, incutendo il giusto timore; c’è come dire la purezza della tensione. La genuinità di una sci-fi priva degli inganni digitali; non è roba datata quanto piuttosto fantascienza purissima, incontaminata, seminale.
Charlton Heston, col suo torace villoso e il suo sorriso fatto di lisci sassi bianchi, si impone sulla scena come un semidio anche senza fornire una chissà quale prova di recitazione; il ruolo gli è stato cucito addosso alla perfezione, lui ci mette la barba incolta, qualche salto, un paio di ceffoni e il gioco è fatto. Il resto del cast è abbastanza funzionale alla storia, senza acuti, compresa l’allora fidanzata del produttore Linda Harrison della quale si potrebbe dire con una certa malizia che non a caso fa la parte di una ragazza muta. I reparti tecnici invece vanno ben oltre la timbratura del cartellino, dove alla grandiosa regia si affiancano la radiosa fotografia di Leon Shamroy e, dulcis in fundo, le indimenticabili musiche di Jerry Goldsmith con quel pianoforte dai fraseggi rapidi e percussivi sotto i colpi di un tamburo profondo e rimbombante.
Quanto è affascinante l’architettura dei sogni, il subconscio, le implicazioni dell’onirico sul reale. A partire dal labirinto di questi atavici enigmi freudiani l’ormai potentissimo Christopher Nolan partorì, sulla scorta del successo planetario de Il Cavaliere Oscuro, l’intricatissimo plot di Inception: in sintesi, una squadra di professionisti che si infila nei sogni altrui per rubare idee si trova commissionata da un misterioso uomo d’affari a fare l’esatto contrario, ovvero innestare nella mente di un giovane erede l’idea di smembrare il suo impero economico. Quando un soggetto geniale trova una sceneggiatura perfetta e una regia all’altezza siamo dalle parti del capolavoro; quando tutte e tre queste doti artistiche appartengono a un solo uomo, è quanto meno doveroso togliere il cappello. Con buona pace dei numerosi haters che inevitabilmente un uomo come Nolan genera quasi per induzione.
In realtà fare una sinossi più puntuale e articolata di Inception sarebbe ostico oltre che inutilmente spoileroso, anche perché lo sviluppo della sceneggiatura segue in qualche modo l’andamento discontinuo e imprevedibile del sogno; sogni dentro sogni dentro altri sogni, in una sovrapposizione sempre più profonda e non facile da cogliere con immediatezza: direi che una seconda visione del film, in questo caso, è quantomeno consigliata. Siamo nel perimetro del film complesso, stratificato, un sottogenere abbastanza di nicchia, che ha pochi irriducibili fan; il pubblico mainstream che ama il cinema come finzione, come luogo dell’astrazione e delle emozioni, difficilmente si innamora dei racconti cervellotici. Nolan, mago degli incastri già apprezzato per il montaggio di Memento e l’illusionismo di The Prestige, spinge al limite estremo un film di intrattenimento e azione, scontentando di fatto gli enigmisti più puri ma avvicinando il pubblico meno “tecnico”; siamo al blockbuster d’autore, l’edizione più raffinata possibile di un rumoroso thriller fantascientifico. E gli incassi al botteghino gli hanno dato chiaramente ragione.
Continuo a pensare che Inception sia uno dei più bei film del nuovo millennio. Nonostante ciò, lo dico in tutta onestà, a scomporre il film sembra non rimanere granché. È paradossale, ma forse non è altro che lo svelamento del trucco nolaniano: sotto il vestito niente, ma che vestito! Guardiamo ad esempio il cast, stellare ovviamente, anche se sappiamo bene che questo non è sempre garanzia di un eccellente risultato. Leonardo Di Caprio, tra i migliori attori in circolazione, non sembra raggiungere l’intensità dei tormenti di Shutter Island né lo strepitoso charme demoniaco di The Wolf of Wall Street. È un personaggio abbastanza bidimensionale nonostante il background. Neanche la splendida Marion Cotillard, seppure in un ruolo molto dark, sembra avere la “partitura” giusta per restare impressa nella mente dello spettatore. Lo stesso dicasi per i vari Hardy, Gordon-Levitt, Murphy: sembra che siano destinati a essere pedine di un magnifico gioco, perdendo personalità e restando relegate al solo compito di dar corpo all’ingegnoso plot. Esperimento che riesce una volta su mille, palla in buca con un solo colpo, ma che nella sua irripetibilità lascia un marchio indelebile nella fantascienza della mente.
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In tutta sincerità Il pianeta delle scimmie meritava la Top 5, ma va bene lo stesso, anche perché Inception è davvero qualcosa di incredibile 😉
Ancora Christopher Nolan inaspettatamente (per me)! Se The prestige è da considerarsi fantascienza, per me è superiore a Inception! :–)
Planet of the apes è davvero fantastico. Ottima lista fino ad ora, complimenti!
parlando del pianeta delle scimmie non si sa davvero da dove partire… dalle location spettacolari, dai molteplici temi trattati in maniera egregia (l’oscurantismo, il darwinismo e il darwinismo sociale, il relativismo)…
è un caposaldo della fantascienza distopica post-apocalittica, ancora oggi un film straordinario…
Più Christopher Nolan c’è, meglio sarà! 🙂 “Inception” è un capolavoro, naturalmente.