Frase segnaposto da sostituire se non torno a casa ubriaco. Lorem ipsum e cose così.
<—8 ore dopo—->
Ho preso diverse astronavi per tornare. Su una degli zingari hanno provocato e spinto un poveraccio. Sono sceso. Triste è sembrata la città, le luci spente e l’umanità brutta. Il mediatore fra il cervello e le mani deve essere il cuore! Ma secondo me non basta. La circolare 90.
Un modesto filmetto, per cui vennero usate 36000 comparse (di cui pare 1100 calvi) e la casa di produzione fallì. Per essere poi riacquistata dai nazi e fare i film di propanazi.
2026, un futuro lontanissimo, agli occhi di chi girava il film 100 anni prima (uscì nel 1927, giusto sul bordo dell’avvento del sonoro). Metropolis è una città ssssspumeggiante (cit), con dei palazzi fichissimi e le robbe che volano e i mazzicazzi. Sviluppatasi insieme a una dittatura-tecnoborghese, e alla suddivisione sociale tra chi sta sopra e se la sciala tra divertimento e cultura, da una parte, e dall’altra chi sta sotto, letteralmente nel sottosuolo, dove vivono e lavorano gli operai. Passo in avanti o indietro, con l’aristocrazia alla luce del sole e la feccia nelle ombre e interstizi. Uhm. Il proletariato, motore del mondo blabla, forza lavoro manuale impiegata in lavori di routine alienanti blabla che permettono la sfavillio del tutto. Unitevi! Freder è il figlio del capo dell’intero ambaradan (che ha creato e governa Metropolis), ha dei pantaloni bianki da bimbominkia coi calzoni al ginocchio e se la vive in giardini in cima ai palazzi in mezzo a un sacco di fike bianke (<–cit, e fike per il 1926, chiaro). A una certa, non si capisce perché, si infrangono gli argini e in questo eden artificiale compare dall’ascensore una maestrina con un sacco di bambini poveracci. Lui s’ingrifa, ma nel senso romantico, e decide di andare a cercarla là sotto. Ovviamente, quando scopre l’inferno di macchine e sudore, casca dal pero. Scambiando i suoi vestiti con quelli di un operaio (il signor 11811), prova su di sé cosa significhi il turno di 10 ore, l’alienazione dei movimenti tutti uguali e privi di senso al servizio di un meccano, fino alle allucinazioni in cui vede la macchina come un Moloch affamato di vite umane. Gli operai cedono, la macchina urla tra sbuffi ed esplosioni, si buttano via un paio di operai e poi si riparte. Nelle catacombe intanto, in una maniera che fa molto cristiani d’antan (la doppietta ambaradan/antan mica pizza e fichi), la maestrina, name’s putacaso Maria, è una specie di profetessa, e invita gli operai ad attendere chi potrà essere mediatore tra il cuore e il cervello. Lui ormai è innamorato cotto e, immodestamente, si propone. Lei ci sta subito (non perché sia un po’ bagassa, ma perché non è quello il punto)
Intanto il di lui padre, Joh, ha chiesto aiuto a Rotwang, archetipico scienziato pazzo coi capelli sparati e una mano di zirconio: Rotwang ha costruito un robot (uguale a D3-BO ma con la patata) a cui potrà, in una tempesta di ampolle – bolle – neon – laser – tubi – arzigogolati strumenti – elettrodi – fulmini – liquidi – ninapintaesantamaria dare le sembianze di Maria, e controllare così i lavoratori.
E niente, bordello.
Perché Rotwang odia Joh, che gli ha al tempo bombato la tipa, e poi è nato Freder, ma lei è morta di parto; allora R doppiogioca per far esplodere tutto. Intanto piovono rimandi alla Torre di Babele, all’Apocalisse e nelle solite allucinazioni di Freder (che invero è un tipo facilmente impressionabile) i sette peccati capitali si animano dai loculi della cattedrale gotica e ballano la rumba, mentre i borghesi sono impegnati in sabba simil stregoneschi. Kind of. Quindi, il robot fake-Maria, che si chiama Hel, che è anche un po’ hell, convince i lavoratori a ribellarsi, salgono tra le macchine e spaccano tutto. Ma così la loro città sotterranea viene allagata, e i loro figli sono sotto! – intanto Freder e true-Maria li salvano. I lavoratori, resisi conto e ignari, cercano Maria, non importa quale, per darle foco. Le trovano entrambe, la fake intenta a organizzare orge e festini; casualmente mettono al rogo la fake, che al foco rivela il fero di cui è fatta. Intanto Rotwang, che ha rapito poi perso poi ripreso true-Maria, sale tirandosela dietro sulla cattedrale, dove avverrà l’ultimo confronto con Freder, e bom, doveva finire bene quindi R casca e more. Il finale è d’amore ma soprattutto con Freder che riesce a rappacificare il cervello (cioè il padre Joh) con le mani (gli operai).
Del film esistono diverse versioni, per cui prima durava meno ma poi nel 2008 in una cantina a Buenos Aires (che bella storia no?) hanno trovato una bobina con un sacco di pezzi mancanti, al momento la versione più sensata a disposizione dovrebbe durare 148, comporre scene di formati diversi e avere un solo vero buco, cioè non si capisce come faccia Maria a fuggire da Rotwang dopo che R e Joh si menano – ma c’è anche la versione da 87 min musicata da Giorgio Moroder, per fighetti che non hanno troppo tempo. Il resto non è comunismo ma quasi, l’assunto di base è impreciso, e quasi 100 anni dopo non siamo del tutto finiti così, ma solo perché il lavoro, e di conseguenza il proletariato, esiste ormai relativamente o non esiste più. Gli operai sono ritratti come schiavi non di nome ma di fatto, ingranaggi sostituibili della macchina che sembra un po’ quelle divinità dell’antichità a cui si doveva pagare ogni tot un tributo per tenerle buone (che ne so, il Minotauro o i vulcani. Nel dubbio, sempre meglio buttare qualcuno dentro al vulcano, ogni tanto). O come deportati, o prigionieri, spersonalizzati con un numero e indumenti tutti uguali, vanno a lavoro con balletti tristi di movimenti meccanici (da dire però che, da ducent’anni, borghese e operaio più o meno sempre vestiti uguali sono).
La storia non è il punto, quanto piuttosto l’ideale di pace universale cui Fritz Lang tendeva – il ragazzo si era fatto la WWI, e scrisse la sceneggiatura con la moglie Thea von Harbou, che poi rimase lì coi nazi mentre il ragazzo, ebreo, pensò bene di telarsela in USA. Ma, al servizio di tutto ciò, sono le scenografie, e gli effetti speciali, ad aver catapultato il film in tutte le Storie del cinema (tranne quella nordcoreana, penso, dove il cinema l’ha inventato il dittatore di due dittatori fa u_u). Fondali dipinti, inquadrature mezzo dipinte e mezzo no, modellini, specchi inclinati, rendono il film erede dei vari capolavori espressionisti tedeschi precedenti (Caligari di Murnau per dirne uno) ma proiettato nel futuro quanto quelli erano avvoltolati nel passato (e nello schifo da cui si era appena usciti, Caligari era del 1919). Le scene, i personaggi, tutto è stato poi la base per un botto di videoclip musicali in fabbriche, robot di Guerre stellari, ambientazioni di Blade Runner e tutto ciò che di futuribile si può immaginare. Freder corre per quasi tutto il film, a tempo di musica e di vapore, tra inquadrature simmetriche di un mondo artificiale e perfettamente spigoloso, come la vita moderna era già lì (mò, cazz’è cambiato?). La storia segue quasi sempre almeno un paio di fili, per cui tanto montaggio alternato e correre, con Freder, per salvare la bella e realizzare la profezia/utopia. Anche se il mediatore, tra mani e cervello, cioè Freder, è teleguidato, e si capisce subito che resterà per sempre un servo della gleba.
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<<< [Posizione n. 4]
>>> [Posizione n. 2]
Bellissimo film, ne ho visto tre quarti l’anno scorso ad arte
Stupendo
Ma… e il 4/4?
mi manca, ma so come finisce perke mi sono spoilerato xD
Sì lo so, come può mancare? Prima o poi insieme ai due di questa classifica che ancora mi mancano lo recupererò 😉
È stato scritto ormai praticamente tutto su questo film (frase che fa da incipit a un quarto delle mie recensioni😞)…
Ma sono sicuro che mai nessuno ha raccontato Metropolis come hai fatto tu😂😂😂😂
Infatti è un capolavoro di scenografia, di messa in scena, di inquadrature, di regia.
La sua simmetrica compostezza, i fondali dipinti, il futurismo di certe scene… sì, capolavoro.
Moz-
Oh, ecco un posto in classifica con cui sono d’accordo 😛
Consiglio caldamente il romanzo di Thea Von Harbou, davvero splendido. Mi piace poi notare come la paura della gente comune per le rivoluzioni industriali venga esorcizzata mediante ginoidi: quella di inizio Ottocento diede vita alla donna meccanica per eccellenza, l’Olimpia di Hoffmann, mentre quella di inizio Novecento – la famigerata “catena di montaggio” – ha dato vita alla ginoide di questo film, simbolo di spersonalizzazione estrema oltre che una delle rarissime ginoidi raccontate da una donna.