Con buona pace dei latinisti e dei puristi, iniziamo col dire che il titolo va pronunciato vais, altrimenti si perde il doppio senso di una parola che in inglese significa contemporaneamente vice e vizio. Non che Dick Cheney, il personaggio immortalato in questa pellicola di Adam McKay, avesse particolari vizi. O almeno: ne aveva uno soltanto, ma bello grosso. Il potere. Tanto che era pronto a dire di no alla vicepresidenza degli Stati Uniti perché ritenuto un ruolo poco prestigioso. Più o meno come uno direbbe no all’invito ad una festa di compleanno di un cugino di terzo grado.
Ma il buon Dick aveva intuito che quello non sarebbe stato un ruolo da vicepresidente come gli altri. Strette di mano, tagli di nastro alle inaugurazioni. Lì si trattava di fare il vice di George W. Bush, uno che a malapena ti sa fare la O col bicchiere.
O almeno così viene presentato dal film Bush figlio, come un inetto qualsiasi. Una tratteggiatura forse un po’ esagerata, ma non così distante dalla realtà.
Insomma, fare il secondo di Bush Junior voleva dire praticamente avere le redini del comando della Nazione più potente al mondo. E quindi per uno come Cheney, abituato a muovere i fili da dietro le quinte, restando nell’ombra, l’occasione era davvero ghiotta.
Vice ripercorre la carriera politica del vice-Bush, partendo da quella provvidenziale strigliata che la moglie esasperata gli fa quando lui era ancora un poveraccio, un medioman come tanti che, finita la sua giornata da operaio, tornava a casa ubriaco e imbrattato del suo vomito. Una strigliata del tipo: o tra sei mesi lavori alla Casa Bianca o ti lascio. No, non proprio così, ma sta di fatto che Cheney quella minaccia la prende estremamente sul serio e in qualche anno si ritrova ad essere il braccio destro del deputato repubblicano Donald Rumsfeld, ai tempi consulente di Nixon.
Da lì parte una scalata formidabile verso i piani alti del potere e quando Cheney tornerà alla Casa Bianca nel 2001 sarà lui a dire a Rumsfeld cosa deve fare, dopo essere stato il suo stagista.
Quello di McKay è un biopic decisamente non convenzionale, forse pure troppo. Come aveva fatto in The Big Short, il regista si sforza in tutti i modi di essere originale, facendone venir fuori qualche trovata geniale (i titoli di coda fake a un terzo di film) e altre invero un po’ forzate. La stessa idea della voce narrante apparentemente estranea e fuori luogo e che d’un tratto diventa tremendamente importante nell’economia narrativa (pur ormai a cose fatte) è sì un espediente ricercato e originale, ma anche, allo stesso tempo, artefatto e spregiudicato.
Insomma, alla domanda come rendere divertente un film biografico su una delle figure meno divertenti della recente politica americana, McKay dà fondo a tutto un campionario di invenzioni tecniche, stilistiche, contenutistiche, che rendono il film piacevole, a tratti bizzarro, ma anche alquanto artificioso. La stessa cosa che McKay aveva già fatto in The Big Short, quando aveva cercato in tutti i modi di rendere comprensibili (per non dire accattivanti) astrusi concetti di alta finanza. Ma una cosa simile -e nello stesso ambito, la politica- l’aveva fatta anche Sorrentino con Giulio Andreotti ne Il Divo, con molta più efficacia del regista di Filadelfia, c’è da dire.
Il fatto è questo: se voglio farmi due risate su Cheney mi guardo una registrazione del Late Show quando-c’era-Letterman. Ma d’altra parte è abbastanza evidente che gli espedienti di McKay servano più a tener desta l’attenzione dello spettatore che a generare comicità.
Anche perché, per il resto, il film si prende tremendamente sul serio, con inserti documentaristici (le varie scene in cui appaiono Nixon, Reagan, la Clinton, Obama) e mockumentaristici (sequenze a loro modo impeccabili di finto documentario girato con gli attori).
E poi, quando tratti degli argomenti spinosi come quelli che si vedono in Vice, magari lasciando intendere l’esistenza di machiavelliche congiure, c’è poco da fare gli spiritosi: tipo che l’invasione dell’Iraq post 11 settembre fu effettuata per motivi economico-propagandistici; o che dietro la nascita dell’ISIS ci sia stata la poco accorta sopravvalutazione delle tribù irachene che facevano capo ad Al Zarqawi.
Insomma, se vi gusta la dietrologia e la geo-politica spinta, qui c’è da divertirsi, molto più per i contenuti che per le suddette trovate registiche.
Il film ha portato a casa otto candidature agli Oscar e sarà curioso vedere se l’Academy cadrà nel tranello di giudicare degna di riconoscimento la regia piaciona di McKay (difficile, visto che il premio sembra saldamente indirizzato nelle mani di Cuaron). Una regia affascinante ma ruffiana, sicuramente più calzante nello spigliato The Big Short (anche allora arrivò la nomination, ma non la statuetta).
Altrettanto improbabile la possibilità di un exploit nella categoria principale, quella del miglior film, mentre più di qualche chance hanno i tre attori candidati ad una statuetta.
Si comportano alla grande, infatti, sia i due non protagonisti Sam Rockwell e Amy Adams, nei panni, rispettivamente, di uno stralunato George W. Bush e della moglie di Cheney (che conferma l’adagio secondo cui dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna). Sia -e soprattutto- l’irriconoscibile Christian Bale, l’enfant prodige del cinema americano, imbolsito e invecchiato per assumere (perfettamente o quasi, c’è da dire) i connotati di Cheney, pacatissimo mattatore della pellicola.
I tempi del Bruce Wayne / Batman della trilogia di Nolan e, soprattutto, del Patrick Bateman di American Psycho sono ben lontani e Bale si conferma un attore impeccabile – almeno quando vuole – che se la giocherà con Rami Malek per la statuetta del Best Actor in a Leading Role.
Un Bale che McKay si porta dietro da The Big Short insieme ad un altro abitudinario delle sue pellicole, quello Steve Carell che fornisce una grande prova da comprimario nei panni di un Donald Rumsfeld grottesco, cinico e irresistibilmente arrogante.
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Vice (2018, USA, 132 min)
Regia e Sceneggiatura: Adam McKay
Fotografia: Greig Fraser
Musiche: Nicholas Britell
Interpreti principali: Christian Bale (Dick Cheney), Amy Adams (Lynne Cheney), Steve Carell (Donald Rumsfeld), Sam Rockwell (George W. Bush), Tyler Perry (Colin Powell)
Mi fa piacere leggere che non sono l’unico ad averci trovato dentro qualcosa di “Il divo”. Mi è piaciuto, McKay sa il fatto suo, la sua satira mi piace, è quella che ci vuole per trattare certi argomenti e certi personaggi. Cheers!
McKay affascina, non c’è dubbio, ma sinceramente il suo stile effervescente e sui generis l’ho preferito in The Big Short… qui forse un po’ forzato, ma comunque un buon film!
Mi sa che solo io faccio il tifo per Willem Dafoe come Migliore attore!
No vabbè io parlavo dei favoriti, che mi sa che sono loro due. Senza nulla togliere alla gran prova di Vincent Dafoe😉
Bella recensione! Questo non l’ho visto, alla fine non mi ispirava così tanto, ma se fossi andato al cinema l’avrei fatto per, come hai sottolineato, il gruppo di attori eccezionali (da Bale alla Adams passando per Rockwell e Carell)!
io invece da appassionato di storia (e in particolare di storia americana) mi ci sono fiondato appena ho potuto… anche se qui il tempo trascorso è ancora poco per potersi definire storia, siamo più nell’alveo dell’attualità e della politica…
Ti linko!