Esistono dei film che tengono lo spettatore desto, in tensione ad essere precisi, dall’inizio alla fine della proiezione. E senza che sia versata una goccia di sangue o sparse frattaglie per terra.
Non si tratta, necessariamente, di un film horror, dove lo spettatore si aspetta di restare sveglio e in tensione, magari ad occhi soc-chiusi dalla paura.
Si tratta, piuttosto, di opere che vanno a colpire in modo subdolo lo spettatore, il quale non si rilassa, non si distende sulla poltrona del cinema o di casa per godersi lo spettacolo.
Piuttosto, rimane vigile e a fine visione uscirà dalla sala o spegnerà il televisore domandandosi che cosa abbia generato in lui inquietudine. Insomma, perché un’opera classificata come “commedia” o “fantastico” lo abbia turbato più di un film appartenente al genere “horror” o “mistero”.
Esistono film, insomma, dove il regista decide scientemente di generare tensione, e in alcuni casi paura, affidandosi a fattori apparentemente secondari. La fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory), un film diretto da Tim Burton, ne rappresenta un “felice” esempio. Vediamo come, vediamo perché.
La sceneggiatura, tratta in modo abbastanza fedele dal libro di Roald Dahl, Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, è quando di più fantastico possa esistere e, di certo, non si presterebbe a un’opera gotica. Eppure, Tim Burton, un regista senza dubbio geniale, è riuscito a creare un piccolo capolavoro di genere.
Fin dalle prime scene si percepisce una sottile tensione, senza che accada nulla di speciale. Macchine veloci ed efficienti preparano, impacchettano le deliziose cioccolate, perché nella gigantesca fabbrica non c’è traccia di esseri umani, persino i camion che lasciano il piazzale imbiancato dalla neve sembrano muoversi da soli.
La struttura gigantesca dello stabilimento, che ricorda una fabbrica del Diciannovesimo secolo, un colosso rispetto alle abitazioni circostanti; le riprese effettuate dall’alto che rimpiccoliscono e schiacciano ogni cosa; una neve fredda e turbinosa, assieme alla musica, contribuiscono a creare un clima alienante, appena distratto dalla “caccia al biglietto”, ma già lasciano intuire come la storia non segua i binari immaginati dal pubblico.
Molto grande o molto piccolo. Non c’è nelle riprese, in particolar modo all’interno della fabbrica, una taglia a misura d’uomo, una soluzione per creare ora un senso di spaesamento ora un senso di soffocamento. Lo stesso “giardino”, dove gli Umpa Lumpa raccolgono i dolci, non ha nulla di paradisiaco, sembra finto, sembra piuttosto una colorata giungla zuccherosa che nasconde trappole mortali.
Le curate ambientazioni dei vari ambienti della fabbrica, i vestiti degli Umpa Lumpa, in puro stile Seventy, si potrebbe dire affascinano ma non conquistano, non esprimono calore o empatia umana.
O molto isolato. Come la casa paterna di Willy Wonka, che il genitore, il dentista Wilbur Wonka (Christopher Lee), sdegnato dal comportamento del figlio, ha strappato dal luogo dov’è sempre stata e l’ha portata in un luogo isolato, dove si erge solitaria come un gigante, come l’ultimo canino di una bocca sdentata.
Se tutto questo fosse sfuggito al pubblico, l’incontro dei fortunati vincitori con Willy Wonka provvederà a sgombrare il campo da qualsiasi dubbio di natura buonista.
La scenetta dei burattini che bruciano e si sciolgono, accompagnati da una allegra musichetta, non lascia solo perplesso il pubblico (-Ma cosa siamo venuti a vedere?- qualcuno si sarà chiesto), ma si ispira a una scena ben più drammatica, presente nel film, questo sì horror, Il mulino delle donne di pietra di Giorgio Ferroni. Ovviamente non è l’unico tributo cinematografico presente nel film: a titolo informativo sono presenti ben due scene prese da due capolavori di Alfred Hitchcock (La donna che visse due volte e Psyco).
Il dramma viene subito stemperato dall’ingresso in scena di Willy Wonka (Johnny Depp), che in realtà di tranquillizzante ha ben poco. Il suo look eccentrico, il suo carattere psicotico, la fobia del contatto umano e un rapporto conflittuale con il genitore contribuiscono subito alla costruzione di un personaggio problematico, incapace di suscitare empatia nel prossimo. Le sue movenze, le sue battute, pronunciate con un tono serio, disarmante, scherzoso, ma dai contenuti più che cinici, lasciano intendere che Wonka non si possa di certo definire un personaggio amichevole, anzi in lui c’è qualcosa di potenzialmente ostile. Quasi un folletto, un goblin sempre pronto a fare scherzi al prossimo.
Il disallineamento tra l’aspetto fisico, il comportamento degli altri personaggi e ciò che dovrebbero potenzialmente rappresentare è quanto di più manifesto possa esserci nel film.
Il caso dei quattro bambini è esemplare.
Augustus Gloop (Philip Wiegratz) è ingordo, in sovrappeso come la genitrice, e concepisce il mondo in due sole categorie: ciò che si può mangiare e ciò che non è possibile portare alla bocca. Lui stesso è materia pura, priva di coscienza: è vivo perché mangia. La bocca gli serve solo per nutrirsi e la sua punizione consiste nel diventare uno dei componenti dei dolci che tanto ama. Ovviamente non accadrà, ma la legge del contrappasso esige una tale minaccia.
Violetta Beauregarde (AnnaSophia Robb) ha una cura ossessiva del corpo e condivide con la madre la fissazione nel partecipare a concorsi di vario genere, di cui esibisce con orgoglio ai giornalisti le numerose coppe vinte. E per vincerne una nuova non fa che ciancicare per tutto il tempo una gomma da masticare, un modo per stabilire un nuovo primato e vincere così un’altra coppa. Come nei concorsi ai quali di solito partecipa, Violetta non è particolarmente attratta dall’oggetto della gara – la cioccolata in questo caso – ma dal premio che potrebbe ottenere. La bocca, insomma, non le serve per nutrirsi o dire cose sensate, ma per vincere nuovi premi. Per punizione verrà trasformata in qualcosa di poco attraente e goffo: un grosso mirtillo.
Veruca Salt (Julia Winter) è dominata dalla bramosia del possesso. Non fa che chiedere continui regali ai genitori, salvo poi chiederne di nuovi ancora. Non vuole avere la cioccolata, vuole avere il biglietto e la bocca le serve solo per chiedere, chiedere e chiedere ancora. E forse il simbolo più potente del consumismo e dell’arroganza del denaro e del potere che vuole avere tutto e subito e non accetta dinieghi, salvo poi gettare via ciò che ha desiderato. E anche lei, come i suoi oggetti, viene messa da parte, gettata via nel tubo di scarico dei rifiuti che porta all’inceneritore (guasto).
Mike Teeve (Jordan Fry), infine, è il personaggio più odioso e infelice dei quattro. Cinico, menefreghista e maleducato, per lui esiste solo ciò che si trova dentro una televisione o un personal computer. Non gli piace la cioccolata, non gli interessa il premio, lo ha fatto solo per dimostrare di essere più bravo di altri e dalla sua piccola bocca escono solo parole terribili, parole di disprezzo e di morte. Il mondo è per lui un grande videogioco dove tutto si può distruggere, convinto com’è che tutto si possa ricostruire, come accade nei giochi. Finirà miniaturizzato, senza la possibilità di tornare ad essere grande. Se mai “grande” sarebbe diventato.
Non se la cavano meglio i genitori dei quattro fortunati prescelti, figure inesistenti, di scarso spessore, che condividono con i figli un aspetto scialbo. Perché alla pochezza morale di tutti loro, si accompagna un aspetto fisico inquietante.
Grazie al trucco e a un sapiente casting, ragazzi e adulti presentano un aspetto mostruoso. I lineamenti non sono affatto dolci, ma tesi, oppure depressi, o ferini, lasciando affiorare quella che è la loro vera natura, ben poco umana.
Per quanto possa sembrare incredibile, sono invece più umani gli Umpa Lumpa, derivati tutti da un solo attore Deep Roy, al quale è toccato il compito anche di impersonare la versione (poco) femminile. Convitati di pietra assistono alla visita senza dialogare in modo diretto con gli ospiti, ma commentando l’accaduto con i loro balletti e canzoni – stranamente già pronte – ed esprimendo un duro giudizio morale su ragazzi e genitori.
Le quattro canzoni, infatti, svolgono un ruolo importante in questo film. La musica e le voci flautate, in pieno contrasto con il contenuto delle canzoni stesse, contribuiscono all’effetto straniante dell’opera. Ascoltarla in italiano e in inglese permette di analizzare bene il significato del testo e l’accuratezza della base strumentale.
Perché realizzare un film per ragazzi con un clima simile, gotico, che non lascia presagire niente di positivo?
Perché era l’unico modo o almeno un modo molto efficace per evidenziare il ruolo dei buoni, che in mezzo a tanti mostri famelici si evidenziano rifiutandosi di compiere certe azioni.
Ma chi sono, allora, i buoni?
Charlie Bucket e la sua famiglia, senza dubbio.
Charlie non è solo un ragazzino, privo di sovrastrutture da adulto. È capace di gesti disinteressati e di compiere buone azioni, come rinunciare al biglietto per aiutare i genitori. Pone domande solo in apparenza banali, si entusiasma di fronte alle meraviglie della fabbrica, come farebbe un qualsiasi bambino. Fa notare ai suoi coetanei l’assurdità di certi comportamenti.
E soprattutto vuole bene al padre e alla madre, tanto che preferisce rinunciare alla fabbrica, se per ottenerla deve stare lontano dai genitori e dai nonni.
Addirittura, con la sua bontà e sincerità, riesce a cambiare Willy Wonka, a fargli raccontare cosa lo tormenta, a convincerlo ad andare a trovare il padre nella casa solitaria, con il quale non si vedeva più da anni, a riconciliarsi con lui e ad accettare che nella fabbrica-fortezza entri un po’ di calore familiare.
Perché “Alla fine Charlie Bucket aveva vinto una fabbrica di cioccolato. Ma Willy Wonka aveva ottenuto una cosa anche migliore: una famiglia. E una cosa era assolutamente certa: la vita non era mai stata più dolce”.
Detto dall’inconfondibile e indimenticabile voce di Arnoldo Foà, l’io narrante dell’intera opera, è un’affermazione che non lascia indifferenti, questa volta in senso buono. Consolatorio, con un happy end che non si vedeva da un po’ di tempo.
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Charlie and the Chocolate Factory (2005, USA / Regno Unito, 110 min)
Regia: Tim Burton
Soggetto: Roald Dahl
Sceneggiatura: John August
Fotografia: Philippe Rousselot
Musiche: Danny Elfman
Interpreti principali: Johnny Depp (Willy Wonka), Freddie Highmore (Charlie Bucket), David Kelly (Nonno Joe), Noah Taylor (Mr. Bucket), Helena Bonham Carter (Mrs. Bucket), AnnaSophia Robb (Violetta Beauregarde), Missi Pyle (Mrs. Beauregarde), Julia Winter (Veruca Salt), James Fox (Mr. Salt), Christopher Lee (Dott. Wilbur Wonka), Deep Roy (Umpa Lumpa), Jordan Fry (Mike Tivù), Adam Godley (Mr. Tivù), Philip Wiegratz (Augustus Gloop), Franziska Troegner (Mrs. Gloop)
Andrea Coco
Bella recensione per un bel film.
Film che comincia con la malinconia (la povertà dickensiana della famiglia Bucket e i traumi infantili di Willy) e si conclude con un dolcissimo lietofine (persino Willy si riconcilia col padre draculesco)
Gli preferisco sempre l’originale, ma è innegabile che questo film funziona 😉