[Attenzione: spoiler diffusi]
Si apre e si chiude con due anacronismi musicali Jojo Rabbit. Si comincia con i Beatles e Komm, gib mir deine Hand versione in lingua tedesca di I Want to Hold Your Hand, cantata dagli stessi Fab Four. E già siamo dalle parti della trovata geniale, perché il pezzo – che nella versione in studio è stato inserito nella raccolta Past Masters – viene presentato in una registrazione live, con tanto di grida forsennate dei fan, mentre scorrono sullo sfondo le immagini di repertorio dei comizi hitleriani davanti a folle di componenti della Hitler-Jugend, la gioventù hitleriana. Accostare raduni nazisti e beatlesmania, due diverse – ma simili – espressioni di una manifestazione oceanica del consenso, è il primo escamotage degno di nota di un Taika Waititi che dopo la parentesi cinecomic di Thor: Ragnarok torna alla regia con un’opera liberamente tratta dal romanzo Come semi d’autunno di Christine Leunens.
L’altro anacronismo musicale, questa volta semi-diegetico, è affidato alle lyrics del Duca Bianco David Bowie, e alla sua Helden, versione in lingua tedesca della celeberrima Heroes. Su quelle note ballano i due protagonisti quando vengono a sapere che la guerra è finita, tenendo fede alla promessa fatta qualche tempo prima (Cosa farai quando finirà la guerrà?, chiedeva Jojo. Mi metterò a ballare, aveva risposto Elsa). Due canzoni, quelle presentate nell’incipit e nel finale, rispettivamente degli anni Sessanta e Settanta. Giusto per decontestualizzare, per mettere in chiaro che le vicende narrate sono sì ambientate nel 1945, ma potrebbero essere proprie di qualunque periodo storico.
Siamo in un’imprecisata cittadina della Germania nazista, a pochi mesi (giorni?) dalla cessazione delle ostilità e dal suicidio di Hitler nel bunker di Berlino, nel pieno dell’avanzata a tenaglia di inglesi, americani e sovietici che decreterà la definitiva sconfitta tedesca. Johannes Betzler detto Jojo, dieci anni (diciassette nel romanzo, un ringiovanimento quanto mai opportuno per le finalità inseguite da Waititi), è un ragazzino membro della Hitler-Jugend, quella che inizia i giovani al nazi-pensiero per il tramite di pratiche da pseudo-boyscout, condite da quel pizzico di crudeltà necessaria a modellare le menti dei futuri uomini del Fuhrer. È durante una di queste giornate (raccontate in stile Moonrise Kingdom) che Jojo fa uscire allo scoperto il suo latente cuore puro, così contrastante con il sé stesso presunto (e fiero) nazista in pectore. E lo fa rifiutandosi di uccidere un coniglietto, barbara prova di iniziazione impostagli dai membri “anziani”, cui si sottrae goffamente ottenendo in cambio l’epiteto di Jojo Rabbit, Jojo coniglio. Una macchia, quella di codardo, che Jojo tenterà di lavarsi di dosso con un incosciente atto di pseudo-eroismo, il lancio – non richiesto – di una granata a mano che gli causerà una serie di ferite e cicatrici.
Jojo vive da solo con la madre Rosie (una Scarlett Johansson che tenta sempre più di emanciparsi dal suo passato di talentuosa sex symbol) dopo aver perso la sorella e dopo che il padre, inviato a combattere in Italia, è ormai da anni irreperibile. Due amici allietano le sue giornate: quello in carne e ossa, il piccolo Yorki, impacciato quanto lui; e quello immaginario, un Adolf Hitler bislacco ma pronto a perdere la brocca in momenti di irascibilità volutamente poco credibili (e che ricordano, anche concettualmente, i tanto discussi “attachi di fascismo” di Tolo Tolo). L’Hitler immaginario è interpretato dallo stesso Waititi, con il trucco che si sforza – ma neanche più di tanto – di mascherare i suoi lineamenti Maori (satira al cubo nei confronti della presunta razza ariana di appartenenza del Fuhrer). L’istrionismo accentuato cui il regista-attore ricorre fornisce l’ennesima parodia cinematografica dell’imbianchino austriaco, esasperata anche per evitare i consueti scomodi accostamenti con il Chaplin de Il grande dittatore. Ne esce un Fuhrer stralunato, clownesco ma anche subdolamente empatico: più o meno come avrebbe potuto immaginarselo un ragazzino di dieci anni, non troppo invasato, ai tempi della Germania del Terzo Reich.
In un primo quarto d’ora decisamente dirompente Waititi mette in scena, con humour efficacissimo, il processo di formazione del perfetto giovane nazista. Operazione fin troppo semplice, per lo meno quando si agisce nei confronti di menti deboli e in un contesto totalitaristico: chiedete a un bambino di bruciare dei libri o di etichettare il diverso come un mostro ripugnante e lo farà – almeno nella stragrande maggioranza dei casi – con discreto entusiasmo. Del resto, le insicurezze, l’ingenuità dei bambini sono il pane di cui si alimentano le dittature, per la loro subdola opera consistente nel plasmare i cervelli della popolazione fin da giovanissimi. Ma sarebbe fin troppo semplicistico fermarsi a sottolineare l’accusa, mediante ridicolizzazione, all’indottrinamento dei più piccoli da parte delle ideologie. Il fanciullo corrotto dal dispotismo è infatti anche – e forse soprattutto – una metafora di chi invece si fa abbindolare da adulto, perché privo delle facoltà intellettuali per discernere, tra le altre cose, l’ipocrisia della propaganda. Waititi, quindi, in maniera quasi scontata, assolve Jojo, nato e cresciuto in quel regime, ma condanna implicitamente il Jojo che è in alcuni (molti) adulti, cresciuti e vaccinati eppure inclini a farsi raggirare dal populista di turno.
Assolve, in parte, anche il nazista pentito Capitano Klenzendorf, un Sam Rockwell come sempre efficacemente mono-espressivo (che interpreti il Bush di Vice o il Dixon dei Tre manifesti). Il suo personaggio, spassoso, perennemente scombinato (quasi un Jack Sparrow nazi) e sobriamente disilluso, vive una discreta evoluzione che lo porta – pur nella costante lucida follia che lo caratterizza – a compiere un paio di gesti di umanità che lo riabilitano ai già indulgenti occhi dello spettatore (tra cui il sacrificio compiuto nel finale, così simile – per certi versi – a quello de La vita è bella). Fraulein Rahm (Rebel Wilson) è invece la nazista fanatica, bionda e corpulenta, stereotipo della cameriera da Oktober Fest. È a lei che si deve, soprattutto nel finale, una delle scene più mestamente verosimili dell’intero film, quando istiga alcuni giovanissimi a combattere fino all’ultimo contro russi e americani, ormai alle porte, trattandoli come inconsapevoli kamikaze. Niente di più vero di quanto realmente avvenne in Germania prima della capitolazione, con il trionfo del fanatismo nazista e della difesa a oltranza delle città, pur a guerra ormai praticamente perduta. E anche a costo di sacrificare tante anime innocenti, ragazzini mandati a morire per nulla. Emblematica in tal senso (e insieme estremamente esilarante) la frase pronunciata dal piccolo Yorki mentre si appresta a difendere la città dall’avanzata anglo-russo-americana: russi e inglesi mangiano i bambini e fanno sesso con i cani… dobbiamo fermarli prima che ci mangino e si facciano i nostri cani. Sequenza anche un po’ tragicomica, se vogliamo, di un efficace humour nero che pervade l’intera pellicola.
Jojo Rabbit (presentato al TIFF 2019, ove si è aggiudicato il premio del pubblico, e in anteprima italiana al 37° TFF, come film d’apertura della rassegna) è del resto una commedia nera a tutto tondo, che non risparmia, accanto ai toni parodistici, quelli propriamente drammatici. Come nella tragica sequenza della morte della madre di Jojo, impiccata dai nazisti dopo che questi ne hanno scoperto il coinvolgimento nella resistenza: Waititi non mostra mai la Johansson appesa per il collo, limitandosi a inquadrare le sue scarpette (inconfondibili) che già aveva a più riprese mostrato in varie scene del film. E il rito dell’allacciamento delle scarpe finisce per rappresentare simbolicamente la crescita (obbligata) del protagonista, in un coming-of-age mai così amaro e doloroso. Il pianto di Jojo sui piedi della madre, un’immagine che richiama l’iconografia cristiana del post-crocifissione, è il momento più toccante del film. Quella sconfortante sofferenza si trasforma in una rabbia che Jojo sfoga contro Elsa, tentando – invero in maniera tutt’altro che convinta – di pugnalarla, ritenendola causa della morte della madre.
Elsa, infatti, è la ragazzina ebrea che la madre di Jojo ha nascosto (à la Anne Frank) in un anfratto della camera un tempo occupata dalla figlia. Elsa ha un rapporto del tutto peculiare con Jojo: già amica di sua sorella, gli fa sostanzialmente da sorella maggiore e – dopo l’uccisione di Rosie – anche da madre, pur nella difficile condizione di reclusa suo malgrado. Jojo se ne innamora, come farebbe qualunque ragazzino di dieci anni, ma il suo sentimento evolve col tempo in qualcosa di più puro, ancorché indefinito. E le lettere che Jojo scrive (o che finge di leggere da un foglio bianco) spacciandosi per il fidanzatino di Elsa, Nathan, ne sono un esempio affettuoso. C’è da scommettere che nei prossimi anni si parlerà molto di Thomasin McKenzie, neozelandese dallo sguardo triste e dal volto angelico, poco più che diciottenne all’epoca delle riprese, capace di dare una caratterizzazione importante al personaggio di Elsa, quello di una ragazzina intelligente e matura, un po’ disincantata e molto sfrontata. Un personaggio antitetico rispetto allo stereotipo della vittima (quasi una anti-Anna Frank), che starebbe decisamente a suo agio nell’Inglourious Basterds di Tarantino (come tarantinesca è la scena in cui Jojo scaraventa fuori dalla finestra, con un calcio da kung fu, l’ex amico immaginario Adolf Hitler, ormai rappresentato con il cranio trapassato dalla pallottola con cui si è suicidato). Difficile, invece, sbilanciarsi su Roman Griffin Davis, bravissimo nei panni di Jojo, ma ancora troppo giovane per escludere la possibilità che vada a rimpolpare la nutrita schiera dei bambini prodigio trasformatisi in meteore.
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Jojo Rabbit (2019, Nuova Zelanda / Stati Uniti d’America / Repubblica Ceca, 108 min)
Regia e Sceneggiatura: Taika Waititi
Soggetto: Christine Leunens
Fotografia: Mihai Mălaimare Jr.
Musiche: Michael Giacchino
Interpreti principali: Roman Griffin Davis (Johannes “Jojo Rabbit” Betzler), Thomasin McKenzie (Elsa Korr), Taika Waititi (Adolf Hitler), Rebel Wilson (Fräulein Rahm), Stephen Merchant (Deertz), Alfie Allen (Finkel), Sam Rockwell (Capitano Klenzendorf), Scarlett Johansson (Rosie Betzler)
Bella recensione, non ho visto il film, però Anne Frank era intelligente, sfrontata e a tratti, nel suo diario, anche antipatica. Per niente vittima, solo un’adolescente.
Guarda, hai ragione, ma credimi che il personaggio di Elsa è diametralmente opposto all’immaginario che abbiamo di Anna Frank, sicuramente un po’ travisato, rispetto al libro, dal film di Stevens del 1959. Elsa è sfrontata oltremodo, quasi una bulla nei confronti del piccolo nazista in pectore (ma dal cuore buono) Jojo. Sarei curioso di avere il tuo parere dopo aver visto il film…
Per ora grazie😉
Bella recensione e bellissimo film; durante la scena in cui Jojo trova la mamma si è sentita la sala che tratteneva il fiato quasi come un sol uomo, mi ha fatto venire la pelle d’oca. Spero tanto che stanotte vinca qualcosa, personalmente tifo per la Johansson, che mi è piaciuta tantissimo (la scena in cui fa il padre? Stupenda) e la Miglior sceneggiatura non originale.
Sullo script può darsi, Scarlett è dura. Io non ricordo la reazione della sala alla scena dell’impiccagione, ma ricordo bene la mia, un tuffo al cuore, anche perché arriva abbastanza inattesa…