
Tra tutte le categorie degli Oscar, quella per il Miglior film d’animazione è per me sempre la più semplice nella quale scegliere un vincitore, e anche quest’anno non fa eccezione: Wolfwalkers – Il Popolo dei Lupi è il mio vincitore, quello che secondo me dovrebbe portosi a casa la statuetta per cui è nominato e anche tutte le altre, così, per sicurezza. Mi aspetto che vinca? Ovviamente no, sono sicuro che alla fine sarà Soul a essere premiato, ma a maggior ragione è necessario diffondere il verbo e far conoscere il più possibile questo film, un piccolo capolavoro dell’animazione europea in grado non solo di tenere testa alla concorrenza d’oltreoceano, ma di batterla, perfino.
Wolfwalkers è ambientato a Kilkenny, in Irlanda, nel 1650. Robyn è una giovane ragazzina inglese da poco arrivata con il padre, Bill, cacciatore assoldato per liberare dai lupi le foreste intorno alla città. L’atmosfera è molto tesa e il padre cerca di convincere Robyn a tenere un basso profilo, ma la ragazza non ne vuole sapere: per dimostrare il suo talento di cacciatrice segue il padre nel bosco, e lì viene morsa da un lupo dotato di strani poteri. Da questo momento Robyn inizia a condurre una doppia vita: da sveglia è un’umana, ma di notte il suo spirito si astrae e prende la forma di un lupo. Insieme a Mebh, la wolfwalker che l’ha morsa, Robyn cercherà di salvare il branco dalla furia fanatica e distruttrice del Lord Protector, ritrovando nel frattempo anche la madre dell’amica, misteriosamente scomparsa da tempo.
Wolfwalkers è un film bellissimo, è una fiaba che ha il fascino immortale delle antiche leggende narrate davanti a un fuoco che brucia, ed è suggestiva come una foresta ancora inviolata che attende solo di essere esplorata. È anche una storia che non ha paura di nulla, e sebbene non ci siano momenti particolarmente violenti o spaventosi salta subito agli occhi quanto sia densa, piena di energia che aspetta solo di essere liberata e che, fatalmente, esplode nel corso del racconto. Una bella differenza rispetto ai contenuti film d’animazione statunitensi, sempre trattenuti anche quando vorrebbero farci credere il contrario e più interessati, eventualmente, a strappare una lacrima facile invece di sfidare direttamente, con onestà, lo spettatore. Forte di una trama solidissima e di ottimi personaggi, invece, Wolfwalkers non ha paura di raccontare una storia molto lineare, come si conviene al genere a cui appartiene, ma non per questo banale o superficiale: è un film che ha molto da dire e un modo viscerale di viversi le emozioni che mette in scena, non edulcorate dalla retorica o dalla necessità autoimposta di semplificare enormemente il proprio messaggio per renderlo fruibile da chiunque.

Potentemente simbolico e dotato di un grande talento nella costruzione delle metafore che dissemina nel corso della narrazione, Wolfwalkers è un’allegoria della schiavitù, quella invisibile che crea catene fatte di paura, abitudine e abnegazione, astratte ma, paradossalmente, incredibilmente più difficili da rompere di quelle d’acciaio, e della fuga disperata di una giovane ragazza che riesce a scorgere la perversione del mondo che le si sta costruendo intorno e non ha intenzione di accettarlo. La città di Kilkenny è una prigione fisica e psicologica, con le sue altissime mura, invalicabili se non con il permesso del Lord Protector, e i legami di paura e, peggio ancora, amore che vorrebbero costringere Robyn a stare al sicuro all’interno delle mura domestiche. Una sicurezza che, però, equivale a una non-vita, un’esistenza protetta da qualsiasi pericolo ma vissuta in una gabbia che tutti, per consuetudine o paura, hanno accettato. Bill Goodfellowe assume quindi il ruolo più drammatico della vicenda, costretto a tarpare le ali alla figlia e rinchiuderla in casa contro la propria volontà semplicemente per assicurarsi che sia sempre al sicuro, sempre protetta, ma sempre prigioniera.
Ecco che allora il lupo emerge come una liberazione da questo stato di cattività a cui le persone si sottomettono in cambio della pace e della tranquillità. Espressione della rottura di ogni ordine, pericolosa manifestazione del lato più istintivo dell’essere umano e, proprio per questo, più necessario ma al tempo stesso più spaventose, il lupo dà modo a Robyn di sfogare la parte più repressa di sé, quella che tutti, lei per prima, hanno cercato di soffocare ma che finisce per esplodere e travolgerla. La trasformazione in lupo avviene nelle forme di una magia quasi spirituale che sembra essere, per gran parte del film, prerogativa femminile, una femminilità ferina e selvaggia che spaventa per il carattere rivoluzionario del messaggio che porta. Un po’ licantrope e un po’ streghe, Robyn e Mebh si inseriscono in una tradizione magica ancora legata alla terra, alle forze della natura e degli spiriti, una magia generata da una donna-lupo, la madre di Mebh, che ha quasi una natura totemica sia nel ruolo che nella rappresentazione.

E a proposito di rappresentazione, parliamo di quanto sia una gioia per gli occhi questo film. Animato in tecnica tradizionale, Wolfwalkers ha l’aspetto di un libro illustrato che si apre davanti ai tuoi occhi, con immagini magnificamente stilizzate che si riducono, talvolta, a semplici tratti di inchiostro. Il disegno è volutamente piatto, bidimensionale, antirealistico, quasi, ad annunciare il ritorno dell’animazione nel territorio di una sperimentazione grafica capace di allontanarsi dall’imitazione di realtà di tanto cinema animato statunitense. Wolfwalkers dichiara così la sua natura di disegno animato, una natura di cui mette a frutto le infinite potenzialità sia nel tratto che nel colore, entrambi improntati a una resa impressionista più interessato a trasmettere l’interiorità dei personaggi piuttosto che il mondo così come oggettivamente esiste; ecco allora che le linee si fanno geometriche e spigolose nella città ma sinuose ed eleganti nella foresta, dominata dai caldi colori dell’oro e di un accogliente verde chiaro, laddove Kilkenny è rappresentata quasi completamente in scale di grigio. La medesima stilizzazione è riservata ai personaggi, che, esibendo talvolta le linee di costruzione delle loro figure, denunciano ulteriormente la loro natura di disegno animato oltre a trasmettere una sensazione di immediatezza quasi sanguigna nell’animazione ed enorme carisma nel design. Da ultimo è da ricordare la bellissima sequenza in soggettiva durante la prima trasformazione in lupo di Robyn, in cui si sfiora l’onirico e i colori si fanno densi e pastosi, con un senso di tridimensionalità dato anche dal tipo di lavorazione fatta sull’immagine: la sequenza è stata infatti realizzata in via preliminare in un ambiente di realtà virtuale, poi stampata fotogramma per fotogramma e quindi animata nuovamente con carboncini e matite.

Visivamente impressionante, quindi, e capace, grazie alla metafora del lupo, di mettere in scena il soffocamento dettato dalle costrizioni umane e, al tempo stesso, la resistenza di un mondo naturale, animista e in comunione tra gli esseri viventi, all’avvento di uno più moderno ma anche, al tempo stesso, più freddo, insensibile, alienato; un mondo, quello di Kilkenny, schiavo non solo delle sue stesse repressioni ma anche politicamente, conquistato dagli invasori inglesi. Sembra riduttivo dire che un film è bello, ma Wolfwalkers è esattamente questo: una bellissima fiaba dal ritmo impeccabile e audace tanto nel racconto quanto nella tecnica scelta per metterla in scena. Ho scoperto solo in fase di raccolta delle informazioni che si tratta della terza parte di una trilogia, seguendo The Secret of Kells e La Canzone del Mare; inutile a dirsi che, appena finita la frenesia degli Oscar, recupererò sicuramente anche quesi film e continuerò a tenere d’occhio la coppia di registi che ci ha regalato questo gioiello, sperando che possano avere una lunga e fortunata carriera.
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Wolfwalkers (Irlanda, Lussemburgo, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, 2020, 103′)
Regia: Tomm Moore, Ross Stewart
Sceneggiatura: Will Collins
Musiche: Bruno Coulais, Kìla
Interpreti principali: Honor Kneafsey (Robyn Goodfellowe – voce), Eva Whittaker (Mebh OgMacTìre – voce), Sean Bean (Bill Goodfellowe), Simon McBurney (Lord Protector), Maria Doyle Kennedy (Moll MacTìre)
Sembra davvero bellissimo, cercherò di vederlo! Forse è vero che non ha possibilità agli Oscar, soprattutto quest’anno, ma a maggior ragione hai fatto benissimo a parlarne, grazie!
E’ davvero bello, ti consiglio di recuperarlo! Purtroppo Disney/Pixar hanno l’abitudine di vincere abbastanza a scatola chiusa, lasciando ben poca speranza a qualunque altro concorrente.
condivido il tuo entusiasmo per questo film, anche se quando lo vidi non ero tanto in vena di soggetti magici, fiabeschi, quasi fantasy, e quindi lo avevo accolto un po’ freddamente… poi col tempo l’ho rivalutato…
sugli Oscar… chissà, potrebbe essere una grande sorpresa alla Parasite… difficile, ma non impossibile…
il disegno naif è eccezionale, hai detto bene: si pone in antitesi con la tendenza al realismo estremo verso cui sta andando certa animazione (diciamo pure: la stragrande maggioranza dell’animazione contemporanea), ma comunque si dimostra così efficace nella sua semplicità…
Spero proprio in una bella sorpresa!
Lo stile del disegno è quello che mi ha fatto innamorare subito fin dall’inizio, prima ancora che la storia entrasse nel vivo; poi è un genere che mi conquista sempre molto facilmente, per cui è stato facile per il film avermi in pugno!