
Sono anni frenetici per Kenneth Branagh, che salta da un progetto all’altro come un’ape iperattiva da un fiore al successivo: con quasi un film all’anno, Branagh ha spaziato dal fiabesco al murder mistery, dal dramma storico all’urban fantasy, dal whodunit al dramma autobiografico di cui stiamo per parlare. Una produzione decisamente eclettica, quasi schizofrenica, che rende difficile inquadrare il lavoro del regista sotto un comune denominatore che non sia, il più delle volte, l’omaggio a grandi autori della letteratura inglese, come William Shakespeare o, più recentemente, Agatha Christie, e che ora si arricchisce di un tassello nuovo, profondamente personale, che prende prepotentemente le distanze dal grande cinema hollywoodiano a cui il regista si è dedicato negli ultimi anni: Belfast è infatti, in confronto, un film molto più piccolo e modesto, ma non per questo insignificante dal momento che Branagh lo usa per raccontarsi ed esplorare una parte fondamentale della sua storia personale.
Il film è ambientato in una Belfast del 1969 sotto assedio, dilaniata dalle tensioni religiose e dai conflitti sociali che ne derivano: la minoranza cattolica è infatti perseguitata dalla popolazione di confessione protestante, una persecuzione che si concretizza in atti di intimidazione e guerriglia rivolti anche alle famiglie protestanti che cercano di convivere pacificamente per le strade della città. Buddy (Jude Hill), 9 anni, è il figlio minore di una di queste famiglie, divisa a causa del lavoro del padre (Jamie Dornan) che costringe la madre (Caitriona Balfe) a barcamenarsi tra finanze sempre più tiranniche e una sicurezza urbana sempre più precaria. Quando infine arriva l’occasione di lasciarsi alle spalle la violenza di Belfast, ma con essa anche la vita che hanno sempre conosciuto, la famiglia di Buddy deve decidere se partire per l’Inghilterra o restare nella loro città.

Con Belfast, Kenneth Branagh si lascia momentaneamente alle spalle il cinema blockbuster che ha cavalcato con risultati alterni per dedicarsi, come accennato in apertura, a una storia dal sapore incredibilmente più intimo, una vicenda famigliare raccontata tutta dal punto di vista del piccolo Buddy, alter ego del regista in quello che è dichiaratamente un film autobiografico. Non si tratta sicuramente più di una trovata originale, dal momento che anni di La Vita è Bella e Jojo Rabbit ci hanno ormai svezzato a osservare le tragedie attraverso il punto di vista innocente e inconsapevole di bambini che si trovano alle prese con vicende più grandi di loro, eppure non credo fosse questo lo scopo del regista nel scegliere Buddy come punto di vista privilegiato sulla storia: lo scopo di Branagh non è raccontare i Troubles, non è spiegare o mettere in scena la violenza del conflitto nazionalista in Irlanda del Nord, che infatti rimane quasi sempre sullo sfondo, ma soltanto raccontare la sua storia, un episodio cruciale della sua infanzia, senza la pretesa di dare un’interpretazione storica o politica agli eventi che prendono forma davanti ai nostri occhi. Si tratta, secondo me, di un punto fondamentale da tenere presente nell’approcciarsi a Belfast, perché se è questo che cerchi allora temo che resterai molto deluso dalla visione, e forse anche infastidito dalla scarsità di approfondimento sulla vicenda storica; Branagh non vuole diventare un nuovo Roberto Benigni e raccontare l’orrore attraverso l’innocenza, ma solo fare onestamente i conti con il suo passato e con un episodio della sua storia personale che, da quel momento in avanti, ha condizionato tutta la sua vita.
Il punto quindi non è tanto sugli avvenimenti che stavano accadendo in città, quanto sul raccolto dramma famigliare che da quegli avvenimenti prende le mosse e che si consuma tutto all’interno delle mura domestiche o, quando proprio la prospettiva si allarga, all’interno del quartiere dove vive Buddy. Kenneth Branagh ricostruisce un microcosmo apparentemente idilliaco, un piccolo mondo felice dove i bambini possono giocare per strada senza pericoli, dove tutti si conoscono e dove non manca mai aiuto e solidarietà, una visione chiaramente viziata dalla percezione di Buddy, autentico narratore inaffidabile della storia. Una narrazione che, tuttavia, non sempre coincide con il punto di vista del narratore, perché se da un lato la ricostruzione storica, le proporzioni delle figure e la rappresentazione di alcuni personaggi, come il grottesco pastore quando declama la messa, sono chiaramente filtrate dalla percezione di Buddy, dall’altra il bambino non è sempre presente in tutte le scene facendo sorgere il dubbio sul quale sia il punto di vista attraverso cui, ad esempio, osserviamo i nonni discutere alla finestra o i genitori commentare il fallimentare annuncio del possibile trasferimento, visto che in quel momento Buddy sta dormendo. Ci si potrebbe domandare chi stia, in quei momenti, raccontando una storia che nel suo complesso è caratterizzata da un punto di vista così particolare, e viene anche spontaneo chiedersi se Branagh stesso se lo sia chiesto – sicuramente sì, non essendo lui uno sprovveduto.

Allo stesso tempo non si assiste mai a un’autentica discrepanza tra quello che Buddy potrebbe credere di aver capito e quello che invece effettivamente sta accadendo: per tutta la durata del film vediamo Buddy intento a origliare brandelli di conversazioni dai suoi genitori, raccogliendo qua e là informazioni sulla loro traballante situazione, ma l’unica cosa su cui lo so vede rimuginare sono le parole del pastore durante la messa, quando minaccia i bambini di dannazione eterna. Non c’è mai un momento in cui Buddy si fermi a riflettere su quello che ha ascoltato, se non nella scena sul divano quando vomita ai genitori pezzi di frasi alla rinfusa ma su cui non lo si è mai visto davvero torturarsi come ci viene chiesto di credere in quel momento; è come se mancassero dei pezzi, tra quello che Buddy sente e quello che capisce, tra quello che pensa e quello che dice, privandoci di brani di sceneggiatura che avrebbero potuto essere più interessanti delle visioni da cartolina di Belfast che sembrano scandire i capitoli del film.
Un film personale e autobiografico, quindi, che però non riesce a non sembrare piuttosto freddo e distaccato per via di una direzione forse fin troppo controllata e da messa in scena. Branagh utilizza una regia assolutamente misurata, contenuta, sempre perfettamente organizzata nella costruzione delle sue inquadrature che si divertono a comprendere più piani all’interno della stessa scena, soprattutto quando ci si trova in interni, così da poter mettere in scena più piani d’azione nello stesso momento (in genere qualcuno che parla e qualcun altro che origlia); se da un lato tutto questo risulta in un film molto sobrio ed esteticamente appagante, che evita subdole manipolazioni psicologiche, dall’altro sembra mancare dell’anima, dell’impulsività, quell’emotività che invece sarebbe logico aspettarsi da qualcuno che ripensa al proprio passato. Manca il sangue, non quello che bagna le strade di Belfast ma quello che pulsa nei cuori dei personaggi, un sangue che troppo poco raramente si intravede sotto una direzione così rigida da sembrare quasi una gabbia per cast comunque eccezionale – compreso il piccolo Jude Hill che se la cava alla perfezione brillando sia con i suoi coetanei che messo di fianco a ottimi attori come Ciaràn Hinds, che interpreta il nonno.

Credo che Belfast non sia il film più incredibile tra quelli candidati agli Oscar, e sebbene possa sembrare costruito apposta per piacere all’Academy sono sicuro che Kenneth Branagh non abbia giocato il ruolo del ruffiano per portarsi a casa qualche statuetta di cui non ha sicuramente bisogno per vedere riconosciuto il suo valore. Mi aspettavo però, dalle premesse, di amarlo molto di più invece di restare, per lo più, abbastanza freddo di fronte allo schermo, e sebbene abbia partecipato alla storia della famiglia di Buddy diversi passaggi, anche drammatici, mi hanno lasciato abbastanza indifferente, senza muovermi granché dentro. È un bel film, insomma, ma non un capolavoro o qualcosa che porterò nel cuore per sempre. Belfast è comunque candidato a ben sette Premi Oscar, tra cui le categorie principali, il sonoro e la canzone di Van Morrison.
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Belfast (Regno Unito, 2021, 97′)
Regia e sceneggiatura: Kenneth Branagh
Fotografia: Haris Zambarloukos
Musiche: Patrick Doyle
Interpreti principali: Jude Hill (Buddy), Caitrìona Balfe (Ma), Jamie Dornan (Pa), Judi Dench (Granny), Ciaràn Hinds (Pop), Lewis McAskie (Will), Lara McDonnell (Moira), Colin Morgan (Billy Clanton).
Be’… Non mi incoraggi a vederlo. È come dire: è candidato a tante statuette perché non ha altri sfidanti.
In realtà è un film piacevole, per cui può valere comunque la pena di guardarlo tenendo presente che probabilmente non ti cambierà la vita. Sugli sfidanti, purtroppo questa è un’annata dove tante candidature sono davvero incomprensibili…
Se andrò a vederlo ti farò sapere il mio giudizio. Buona giornata
anche per me è stata una delusione, anche se alla fine tutto sommato tu promuovi comunque il film, mentre nel mio caso prevalgono gli aspetti negativi…
pensando ad altre opere di registi che raccontano la propria infanzia/giovinezza, in un contesto storico più o meno critico – in particolare penso a Roma di Cuaron e all’ultimo di Sorrentino, che pure non mi ha entusiasmato – credo che questo film ne esca con le ossa rotte da un ipotetico confronto…
sugli aspetti contenutistici sono abbastanza d’accordo con quanto scrivi, per cui preferisco soffermarmi sugli aspetti tecnici che sono quelli che mi hanno lasciato più perplesso:
– la fotografia: troppo asettica, troppo pulita, troppo nitida, non sembra quasi un film ambientato nel passato (se non lo testimoniassero alcuni dettagli) ma un film contemporaneo virato in bianco e nero… in certi casi il 4K e la visione al cinema può fare più male che bene… forse – strano a dirsi – questo film può rendere meglio visto su uno schermo di bassa qualità, come il monitor di un computer…
– la scenografia: anche in questo caso asettica, troppo pulita… siamo a Belfast nel 1969 e sembra di essere a Losanna o a Zurigo… e poi è troppo finta e artefatta… mi ricordava la scenografia di Marnie di Hitchcock…
– la regia: non sempre condivisibili le scelte di Branagh… faccio un esempio magari banale ma per me significativo: la madre è sempre inquadrata leggermente dal basso… Caitriona Balfe (modella, bella donna sicuramente) mi dava l’impressione di essere alta 1 e 95… vado a vedere quanto è alta: 1 e 77… mi chiedo allora perché volesse dare quell’effetto di slancio, che nel film è davvero palese… forse perché un bambino vede la madre come una figura soverchiante, anche fisicamente… ma lo stesso non emerge con il padre… sono dettagli apparentemente banali, ma a livello inconscio creano un disturbo visivo che poi probabilmente incide sul giudizio complessivo… la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che si sta vedendo…
detto ciò, il film è nominato a 7 Oscar… tra cui non capisco tanto la miglior regia… meno male che almeno non hanno candidato fotografia e scenografia, altrimenti avrei veramente pensato di non averci capito un tubo…
Secondo me il padre si vede una volta inquadrato dal basso, quando si trova nella strada a fronteggiare il tizio cattivo: mi sembra ci sia un’inquadratura di spalle dal basso che lo rende torreggiante, ma è proprio solo un momento.
Sono d’accordo sul definirlo un film asettico, è tutto troppo patinato e costruito per poter trasmettere davvero qualcosa di efficace; per dire, anche Roma era molto estetico come film, eppure non mi aveva lasciato così indifferente. Ma credo che non si porterà a casa nulla come premi, secondo me rimarrà a bocca asciutta.
Ottima la tua analisi! A me è piaciuto, ma i difetti che hai elencato ci sono tutti, non c’è che dire.
L’ho comunque trovato dolce e divertente al punto giusto, mi è volato e ne ho ammirato la regia e le interpretazioni. È un film volutamente piccolo e intimo che non so perché abbia ricevuto tante attenzioni in quanto a premi e nomination: sarà il bianco e nero che ultimamente fa sempre gridare al miracolo (a sproposito)?
Il bianco e nero fa sempre impressione sull’Academy, un po’ come il piano sequenza: lo vedono, gridano “ARTE!” e gli danno un premio.
Per quanto riguarda le attenzioni non meritate, ieri sera ho visto King Richard: si potrebbero scrivere pagine su quanto sia un film nella media e senza infamia e senza lode, al punto che ho il terrore di trovarmi di fronte a un secondo caso Green Book.
Ahahah! Anche quello ha fatto incetta di nomination, vedo! Ma sti premi vanno ignorati, son cose interne a Hollywood senza reale connessione con la qualità dei prodotti…