Confronti: il 1° maggio di L’ultimo Spettacolo – due film (così diversi) sul mondo del lavoro

operai-grattacielo-new-yorkIn occasione della festa dei lavoratori, proponiamo l’analisi di due pellicole ambientate nel mondo del lavoro. Si tratta di due film molto diversi tra loro, usciti a settant’anni di distanza.

Uno parla di operai, l’altro di impiegati.

Uno è un classico intramontabile di uno dei più grandi mattatori della storia del cinema. L’altro è un film minore di un regista controverso, sempre pronto a provocare e che in questo caso lo fa da un punto di vista tecnico-cinematografico. 

Tempi-moderni2Partiamo con Tempi moderni il film visivamente più suggestivo – insieme a Il grande dittatore – di Charlie Chaplin. Una pellicola che ha saputo imprimere indelebilmente alcune sue immagini nella memoria degli spettatori di ogni generazione.

In una grande fabbrica seguiamo le vicende dell’operaio Charlot, che lavora in catena di montaggio, a ritmi sempre più frenetici, fino ad andare fuori di testa. Viene poi arrestato perché erroneamente ritenuto il capo di un movimento di manifestanti. Uscito di prigione per buona condotta (ha aiuto a sventare un tentativo di evasione), Charlot cercherà di trovarsi un nuovo lavoro (prima in un cantiere navale, poi come custode di un grande magazzino, infine come cameriere in un ristorante) con esiti ovviamente insoddisfacenti.

Le pluri-citate scene della fabbrica, che aprono la pellicola, hanno una potenza visiva unica e riescono perfettamente nel loro intento di critica al capitalismo selvaggio e allo sfruttamento dei lavoratori, tipico di quegli anni Trenta in cui il film fu girato.

La mimica, le movenze e l’incredibile gestualità di Chaplin sono davvero ineguagliabili e restituiscono al meglio l’immagine dell’operaio ridotto alla follia dal lavoro usurante.

Tempi-moderni

La geniale trovata della macchina alimentatrice – volta a consentire all’operaio di lavorare anche mentre mangia – regala alcuni dei momenti più esilaranti del film, che nella parte centrale vede calare leggermente il ritmo, prevalendo la sommatoria di singole gag, ancorché non disomogenea.

Altra sequenza memorabile è quella finale del ristorante, unica occasione in cui si può sentire la voce (o, per meglio dire, l’ugola) di un Chaplin che per il resto si ostina a mantenere muto il suo personaggio (e non solo lui) a quasi dieci anni dall’invenzione del sonoro. L’interpretazione chapliniana di Je cherche après Titine è davvero una piccola perla all’interno del capolavoro: quando Charlot dà voce al suo personaggio per la prima volta lo fa ricorrendo alla canzone e in particolare ad un testo nonsense intriso di parole prese qua e là da tutte le lingue. È la genialità di Chaplin che si manifesta nel suo desiderio di mantenere un universalismo minacciato dal passaggio dal muto al sonoro.

La chiusura ottimistica, nonostante il drammatico scenario dipinto in precedenza (la Grande Depressione, la disoccupazione, la povertà delle classi meno abbienti), è in perfetto stile Chaplin.

Il film e il suo autore non potevano non venire accusati di bolscevismo, etichetta che resterà appiccicata a Chaplin fin dopo la seconda guerra mondiale, quando sarà oggetto dell’indegna persecuzione maccartista.

il grande capoIl secondo film è un’opera del controverso regista danese Lars Von Trier, assolutamente anomala nella sua filmografia. Il grande capo è infatti una commedia dell’assurdo ambientata nell’ambito del business, che affronta un tema a suo modo interessante, anche se in chiave farsesca: quello dell’ipocrisia del mondo delle aziende e in particolare l’ipocrisia delle gerarchie.

Il soggetto (dello stesso Von Trier) è assolutamente originale. Un uomo, che ha finto per anni di essere un semplice dipendente dell’azienda in cui lavora, quando invece ne è il proprietario (al fine di scaricare la responsabilità di scelte scomode su un fantomatico Grande Capo), si trova nei guai quando, per trattare la cessione della società, l’acquirente si rifiuta di trattare con lui (pur legalmente titolato a farlo), volendo concludere l’affare direttamente e solamente col Grande Capo.

il grande capo4Ecco che allora egli si trova costretto ad assumere un attore (completamente a digiuno di concetti economico-aziendali) che interpreti questo Grande Capo e che, non potendo per contratto rivelare l’inghippo, elaborerà a sua volta una strategia dello scaricabarile, che per Von Trier appare intrinsecamente collegato ad un ipocrita quieto vivere aziendale.

Un’idea originalissima, ma con un finale forse un po’ banale, nel tentativo di regalare il colpo di scena a tutti i costi.

Il fatto che a interpretare il Grande Capo (nella finzione, si intende) sia un attore (squisito paradosso meta-cinematografico: un attore che interpreta un attore che interpreta il Grande Capo) consente al regista danese di affrontare il tema dell’interpretazione, scherzandoci anche un po’ su.

Eppure il mio giudizio su questa pellicola – che partiva da un’idea in sé interessante – è fortemente negativo, ancorché soltanto per ragioni tecnico-cinematografiche.

Non mi riferisco al montaggio assolutamente aggressivo che, tagliando pressoché tutte le pause presenti nei dialoghi, sceglie di adottare uno stile documentaristico. Una scelta che anzi rende la pellicola molto dinamica.

Mi riferisco alla tecnica di ripresa dell’automavision, ideata dal regista danese e sperimentata per la prima volta proprio in questo film. Si tratta di una tecnica che automatizza le riprese mettendo dietro la macchina da presa un computer anziché un operatore, che utilizza un programma totalmente casuale.

L’esperienza del Dogma 95 si era appena ufficialmente conclusa, ed ecco che Von Trier la sconfessa provocatoriamente in uno di quelli che era stato tra gli aspetti principali: l’utilizzo della camera a mano.

L’idea di mettere una macchina dietro la macchina, per quanto, appunto, provocatoria (e per quanto evochi, curiosamente, scenari asimoviani) è a mio avviso l’assoluta espressione dell’anti-cinema.

il grande capo3E non tanto per quelle inquadrature assurde, con teste mozzate, simili a quando, in vacanza, si chiede di scattare una foto a un passante che non sa minimamente come si usi una macchina fotografica.

Non tanto per le assurde inquadrature dove il centro dell’interesse sembra spostarsi sugli asettici ambienti d’ufficio, anziché sugli attori che stanno recitando.

Questi sono soltanto gli assurdi risultati di una tecnica che è ontologicamente assurda perché uno degli aspetti imprescindibili della storia del cinema risiederà sempre nell’opera del regista che decide, muovendo (o facendo muovere) la macchina da presa, cosa e come inquadrare.

Se la provocazione della rimozione della scenografia in Dogville era stata accolta con favore, anche dal sottoscritto, in questo caso, a mio avviso, si tratta di una scelta inaccettabile, che va pertanto rispedita al mittente.

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Modern Times (1936, USA, 87 min)

Direktøren for det hele (2006, Danimarca/Svezia, 99 min)

8 pensieri riguardo “Confronti: il 1° maggio di L’ultimo Spettacolo – due film (così diversi) sul mondo del lavoro

  1. Chaplin resta e resterà fra i grandi Artisti del novecento, quanto abbiamo ancora da imparare… il regista Lars … eh sempre interessante ma mica facile da digerire Enri1968 è il suo Stile.
    Buon primo maggio.

    1. Eh sì, il bello dei film di Chaplin è che puoi vederli e rivederli e troverai sempre delle nuove perle da gustare… Buon primo maggio anche a te

    1. Beh, non c’è storia! Ho scelto apposta due film molto diversi tra loro, uno bellissimo e l’altro, come penso si sia capito, che mi ha deluso profondamente, soprattutto perché l’idea di fondo era davvero valida e non meritava di essere rovinata con quella pretenziosa sperimentazione

  2. Gran bella idea questo accostamento davvero particolare 😉
    Ho ottimi ricordi del “Grande capo”, perché essendo Lars uno sperimentatore cambia ad ogni film e non sempre è facile seguirlo, né tanto meno piacevole. Era un po’ che faceva scelte che non mi piacevano o non mi interessavano, per cui ho accolto con piacere un’idea che non mi urtasse i nervi. (Tipo Nymphomaniac!) Cambiare sempre strada è una scelta coraggiosa che gli va riconosciuta, visto che di solito i registi “sperimentano” i primissimi anni prima di diventare mainstream (anche nel loro non essere mainstream). Invece dagli anni Ottanta Von Trier non ha mai smesso di cambiare strada appena si rende conto che ne sta percorrendo una: questo vuol dire che non può piacere ogni volta, e anche uno dei primi fan entusiasti come me può voltargli le spalle, perché non ha capito che cacchio di strada stia percorrendo 😛

    1. Beh sì Von Trier non può sicuramente essere considerato un reazionario, tutt’altro😀… Anche per me vale la stessa cosa…alcuni suoi film mi piacciono moltissimo, altri li considero inaccettabili… purtroppo il grande capo è tra questi, come ho spiegato, nonostante un’idea originalissima… tra l’altro penso che sia l’unico film su cui abbia un giudizio così netto e contrastante tra la parte tecnica e il soggetto…

  3. Sono diventata un fan entusiasta di Von Trier dopo aver visto Le onde del destino. Purtroppo però con Dancer in the dark ho capito una cosa fondamentale: Von Trier non ha rispetto per i suoi attori (vedi per es la testimonianza di Bjork) né per il suo pubblico (va bene la camera la camera a mano ma NON per far vomitare gli spettatori). La sperimentazione che non tenga conto dell’uso “umano” che poi se ne farà rischia di diventare “disumana”. Come l’orribile e per certi tratti ridicola protagonista di Nynphomaniac… Von Trier da l’impressione di un talento grande dentro un uomo piccolo.

    1. eh, Von Trier fa discutere chiunque e non metterà mai d’accordo nessuno… questo è certo… mi son fatto l’idea che sia difficile trovare qualcuno a cui siano piaciute tutte le sue pellicole… molto facile invece trovare spettatori a cui sia piaciuta moltissimo una (o più) delle sue opere e che al contempo ne abbiano “odiate” visceralmente altre… come è il mio caso e come mi sembra sia anche il tuo…
      ti anticipo che parleremo a breve di Dancer in the Dark nell’ambito dello speciale Cannes…
      quanto ai registi disumani Von Trier non è certo l’unico… basti pensare a Vittorio De Sica che in La ciociara dice alla allora undicenne (!!) Eleonora Brown che i suoi genitori sono morti in un incidente stradale per farla piangere in modo verosimile… (e ovviamente non era vero che fossero morti, ma pensa che shock per una undicenne)

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