Al cinema: Tenet, di Christopher Nolan (recensione espresso – no spoiler)

[Più che una recensione – per la quale in questo caso, più che mai, servirebbe una seconda visione – una serie di impressioni e riflessioni a caldo, rigorosamente in modalità no spoiler; anche perché fare spoiler di un film così, senza perdersi in almeno un paio di paginette (e senza perdere il lettore dopo poche righe), è davvero molto difficile…]

[1] Chissà cosa penserebbero i Lumière di Tenet. Del fatto che la loro intuizione – semplice, ma allora già geniale – illustrata in Demolition d’un mur, avrebbe potuto portare, oltre centoventi anni dopo, a quest’opera intricatissima e contorta, sicuramente avvincente, ma non di immediata comprensione.

Perché Tenet è un film che si divide tra un abstract che potrebbe tranquillamente sintetizzarsi in una ventina di parole, senza troppe difficoltà, e un intreccio che invece diventa estremamente complicato qualora si voglia tentare di scendere nei dettagli o illustrare come quella trama si dipana. Se mai ci fosse il bisogno di farlo.

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Al cinema: Domino, di Brian De Palma

Nel travagliato crepuscolo della carriera di Brian De Palma viene ad aggiungersi un film disconosciuto, dopo una serie di pellicole di scarso successo o dalle tormentate vicende distributive. Domino è arrivato nelle sale soltanto a metà 2019, sebbene fosse in fase di post-produzione già sul finire del 2017 (o almeno: quando il Torino Film Festival dedicò a De Palma una retrospettiva, questi non poté accettare l’invito adducendo quella motivazione).

Una produzione internazionale, ma soprattutto danese (con la partecipazione di altri finanziatori europei provenienti da Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi), per una storia che racconta l’angoscia del Vecchio Continente negli anni del terrorismo e dell’ISIS, pur ipotizzando le vicende ambientate in un recente futuro.

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Al cinema: Welcome Home, di George Ratliff (recensione espresso)

Mi son fatto l’idea che la Ratajkowski sia un tantino sopravvalutata (sopravvalutata ma pulita, dato che si fa più di una decina di docce soltanto nei 90 minuti di Welcome Home).

Non per la recitazione (in quello si può definire una miracolata, più che una sopravvalutata).

È che non mi sembra questa incarnazione di Venere, come taluni vogliono farla passare. Fisico perfetto, quello non si discute. Ma talvolta ha questa espressione da ranocchietta (non voglio fare il difficile, sono libere considerazioni di un osservatore critico / oggettivo -o presunto tale-).

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Fly Me to the Moon: #6 – Apollo 13, ovvero: quando la Luna iniziava a stufare, ecco l’incidente che risolleva la suspense

La frase non era nemmeno quella.

Cambia il tempo verbale… cosa vuoi che sia?

Eppure, messa in quel modo, contribuisce a generare un maggior pathos rispetto a quella originale.

Sono passate 55 ore e 55 minuti da quando l’Apollo 13 è partito da Cape Canaveral, alle 2:13 del pomeriggio dell’11 aprile 1970.

Jack Swigert, uno dei membri dell’equipaggio, si rivolge al controllo missione: “Okay, Houston, we’ve had a problem here“.

Passano 8 secondi: “This is Houston. Say again please“.

Al che interviene il comandante della missione, il capitano Jim Lovell: “Houston, we’ve had a problem. We’ve had a main B bus undervolt

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Fly Me to the Moon: #3 – Moon, di Duncan Jones

47314E se smettessimo di sognare la Luna, e finalmente riuscissimo ad arrivarci non solo come visitatori, ma in modo stabile? Non solo, cosa succederebbe se scoprissimo che la panacea ai peggiori mali del mondo, principalmente la crisi energetica, si trovasse proprio sulla superficie del nostro satellite, lontano, certo, ma relativamente a portata di mano? Da questo esile spunto narrativo parte Duncan Jones nel dirigere Moon, il suo lungometraggio di debutto, un film che rientra in quel filone della fantascienza introspettiva che viaggia lontano nello spazio per ritornare all’uomo e a tutto ciò che lo rende tale (và che bella frase, non l’avevo neanche pianificata, è uscita da sola).

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Fly Me to the Moon: #2 – Capricorn One, ovvero: ma l’uomo c’è andato o no sulla Luna?

Si scrive Marte ma si legge Luna.

Capricorn One è il nome della missione che dovrà portare il primo uomo sul Pianeta Rosso, dopo il successo dell’allunaggio dell’Apollo 11, cui è seguito però un crescente disinteresse per le altre spedizioni sul satellite terrestre. A Cape Kennedy il missile è in rampa di lancio e a Houston il centro di controllo sta seguendo le ultime fasi prima del decollo. Eppure i tre astronauti selezionati per questa storica missione – il comandante Charles Brubaker e i due ufficiali Peter Willis e John Walker – vengono fatti scendere in fretta e furia dal modulo di comando, a pochi minuti dall’accensione dei propulsori. La NASA è infatti a conoscenza di un serio problema ai componenti del Capricorn che potrebbe mettere a repentaglio la vita degli astronauti. La notizia, però, non può essere diffusa e la missione non può venire annullata, altrimenti causerebbe il definitivo affossamento dei programmi spaziali, già nella bufera per gli altissimi costi di gestione, a fronte di un entusiasmo drasticamente in picchiata da parte dell’opinione pubblica.

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contemporary stuff: Free Solo, di Jimmy Chin e Elizabeth Chai Vasarhelyi

Può un documentario rivelarsi contemporaneamente uno dei thriller più intensi mai proiettati sul grande schermo? Sì, se racconta la vita e le avventure di Alex Honnold, arrampicatore e alpinista californiano divenuto famoso a livello globale dopo aver scalato in Free Solo la parete di El Capitan, nel Parco nazionale di Yosemite, il 3 giugno del 2017.

Free Solo documenta la preparazione e il compimento di quella storica ascesa, un’impresa folle già solo per il fatto di essere potenzialmente fatale. Nel Free Solo, del resto, non c’è margine di errore. L’arrampicata avviene senza l’ausilio di corde o imbragature, con le sole scarpette e il sacchetto porta magnesite allacciato attorno alla vita.

Alcuni passaggi sono di enorme difficoltà, con le dita delle mani o le punte dei piedi che si ancorano su frammenti di roccia di pochi centimetri.

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Su Netflix: Calibre, di Matt Palmer (recensione espresso)

È uno dei film più interessanti presenti sul catalogo Netflix, sebbene meno conosciuto rispetto alle opere più celebrate distribuite in esclusiva dal colosso dello streaming. Calibre, film britannico diretto da Matt Palmer, è un thriller abbastanza classico nell’impostazione, ma anche nel soggetto, che richiama eco dostoevskijane.

Una battuta di caccia tra due amici, organizzata in un bosco delle Highlands scozzesi, finisce nel peggiore dei modi e i tentativi di sistemare il guaio genereranno grossi problemi con la comunità locale, molto chiusa nei confronti dei forestieri.

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touch of modern: Omicidio a luci rosse, di Brian De Palma

Febbraio è stato il mese degli Oscar, ma è stato – almeno nella blogosfera – anche il mese del doppio per un’iniziativa lanciata dal blog Letture Pericolose e ripresa, tra gli altri, da nonquelmarlowe, Il Zinefilo e Cinecivetta. Sì, ok, febbraio è finito, ma qui si era impegnati con gli Oscar e comunque – come è giustamente stato fatto notare – perché non raddoppiare il mese del doppio?

Quando si pensa al tema del doppio nel mondo del cinema non può non venire in mente Hitchcock, ma anche – e forse soprattutto – non può non venire in mente Brian De Palma, uno che di Hitchcock era discepolo fedele, uno che sul tema del doppio ci ha costruito mezza carriera. Tra i film dedicati dal regista di origine italiana a questo tema non può non emergere quella che è anche una delle sue opere più interessanti, Omicidio a luci rosse.

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