Al cinema: High Life, di Claire Denis

high_life_locLa settimana scorsa sono finalmente tornato al cinema, vedendo il mio primo film in sala da Febbraio; erano anni che non passavo così tanto tempo senza andare al cinema, ed è stata un’esperienza un po’ estraniante, il segno che effettivamente la vita sta tornando quella di prima, nonostante la mascherina che ho dovuto/scelto di tenere indosso per tutto il tempo. La sensazione di estraniamento dovuta all’essere in sala è stata pari solo a quella provocata dal film stesso, High Life, distribuito nel 2018 ma uscito in Italia solo ora, visto che siamo sempre sul pezzo e i prodotti più impegnativi li facciamo uscire quando possiamo essere più sicuri che nessuno li andrà a vedere, tipo in una combinazione tra post-pandemia globale e canicola agostana.

Il film racconta la storia di Monte (Robert Pattinson), in viaggio su un’astronave verso un buco nero. La sua unica compagnia è la figlia neonata Willow, della quale Monte si prende amorevolmente cura e che gli dà una ragione in più per sopravvivere nella solitudine dello spazio profondo. Lentamente, in una serie di flashback, viene fatta luce sul destino degli altri membri dell’equipaggio, che sappiamo fin quasi da subito essere tutti morti, e sullo scopo reale della missione.

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La regista francese Claire Denis dirige una produzione internazionale in questo film fantascientifico che sfrutta il topos dell’esplorazione spaziale per tornare, invece, alle radici dell’uomo, alla sua genesi, a quella terra nera e bagnata da cui, si dice, sia stato plasmato e a cui un giorno tornerà. La Denis prende decisamente le distanze dal filone kolossal della fantascienza, di cui Nolan può essere considerato uno dei massimi esponenti, per cercarne invece una dimensione più intimista ed esistenzialista che cerchi (non trovi; di risposte non se ne possono dare) le risposte alle grandi domande che perseguitano l’uomo fin dal momento in cui il lume dell’intelligenza si è acceso nel suo cervello, e prima di tutto: cosa significa essere umani? Un quesito a cui molti hanno provato a rispondere, e per il quale la Denis cerca la soluzione nel concepimento, nell’atto creativo definitivo, nell’unico momento in cui all’essere umano è davvero concesso di creare la vita.

Non è un caso, forse, che tra le asettiche pareti della nave spaziale l’unico ambiente davvero amato e pieno di vita sembri essere il giardino artificiale con tanto di orto, l’unico ambiente, in quello scenario futuristico, a creare un collegamento con la Terra e a permettere ai membri dell’equipaggio un contatto quasi atavico e primordiale con la terra, lo sporco e la polvere. È lì che Tcherny va a rilassarsi, togliendosi gli scarponi da lavoro e affondando i piedi nel terriccio, ed è sempre nella terra che Elektra vorrebbe essere sepolta, nonostante le rigide regole igieniche dell’astronave. Un ritorno all’umanità più primitiva, quindi, a un contatto quasi ancestrale con la terra che si è perduto nei millenni di evoluzione ma si dimostra, ancora una volta, un potentissimo simbolo in grado di portare a sintesi l’animale e l’uomo, il corpo e la mente, il fisico e lo spirituale, creando una linea diretta che va dai nostri lontanissimi antenati nelle caverne ai nostri pronipoti altrettanto lontani nello spazio, passando attraverso ognuno di noi.

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Una terra ancora feconda e madre, così come madre la dottoressa Dibs vorrebbe essere di nuovo e che fossero le donne della spedizione. Immagine di una maternità perversa, che come Medea ha sterminato la sua prole prima di fuggire nel cielo, la dottoressa Dibs vive nell’ossessione di replicare l’attimo del concepimento usando l’equipaggio come cavie, dal momento che, a causa del suo tentativo di suicidio, non è più in grado di avere figli. Un’ossessione che si concentra in fretta su Monte a causa del suo ascetismo, e che diventa irrazionale nel momento in cui porta la dottoressa ad architettare un articolato piano che, come una succubo, la porta ad appropriarsi del seme dell’uomo a sua insaputa e usarlo per ingravidare un’ignara donna dell’equipaggio.

La pulsione sessuale, l’istinto all’accoppiamento e alla procreazione, sembra quindi diventare il tratto comune dell’esistenza, soprattutto nel momento in cui ci si sposta dal particolare all’universale, e lo sguardo si spinge al di fuori della cabina verso quel ventre nero e misterioso rappresentato dal buco nero. Metafora finale di un utero ancora vuoto, ma non per questo necessariamente sterile o inospitale, il buco nero appare non minaccioso, ma in attesa solo dell’astronave, di un nucleo che possa scatenare in esso la rivoluzione della vita e dare origine, forse, a un nuovo universo. Claire Denis riesce quindi a riscrivere con poche immagini ampiamente simboliche la natura del buco nero, uno degli ultimi misteri della scienza e che la fantascienza ha immaginato in tutti modi: tra le sue mani, il buco nero diventa un utero vergine in attesa del suo seme, di un’invasione che non sia la distruzione ma la nascita di qualcosa; di che cosa, però, ancora una volta, non ci è dato saperlo.

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Claire Denis realizza così un film potentemente simbolico che utilizza il sesso per parlare dell’invisibile, dell’esistenziale, trovando proprio in questo che è l’atto più fisico e ferino al mondo la chiave di volta per interpretare un’umanità che, nonostante le scoperte tecnologiche e le sconcertanti innovazioni, riesce a ritrovare sé stesso solo nel contatto con la terra e con il corpo proprio e dell’altro. Il mistero della vita e della creazione si fonde così con quello delle frontiere dell’universo, riempiendo lo spazio non di punti interrogativi e terrificanti incognite ma di potenzialità in attesa di essere sviluppate e portate in vita.

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High Life (2018, Francia, Germania, Polonia, Gran Bretagna, Stati Uniti, 110′)

Regia: Claire Denis

Sceneggiatura: Claire Denis, Jean-Pol Fargeau

Fotografia: Yorik Le Saux

Musica: Stuart A. Staples

Interpreti principali: Robert Pattinson (Monte), Scarlette Lindsey (Willow), Juliette Binoche (Dibs), André Benjamin (Tcherny), Mia Goth (Boyse), Agata Buzek (Nansen), Lars Eidinger (Chandra), Ewan Mitchell (Ettore)

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